giovedì 31 maggio 2012

MANI





Famose le mani di Louis Aragon, anzi, "le mani di Elsa" tradotte in poesia da Aragon. Più recenti quelle di Vittorio Sereni, direi più buie.
Le mani, vengono subito dopo il contatto visivo, dopo lo sguardo. Appena oltre la pupilla, arriva la mano, stretta o leggermente sfiorata, è porta di conoscenza, è avvicinamento cauto quando non ancora permanenza, gesto abituale, reiterato. Ci sono  mani che aprono e lasciano andare oppure che fermano, difendono, allontanano. Non sono mai nostre quelle che vorremmo stringere nè tantomeno,ovvio, quelle sognate. Luogo dell'anafora e dell'imperativo, le mani di Elsa sono paradigma dell' "altro", supplica benevola al dono impossibile del restare, tentativo di  comunicare l'indicibile, fuori da ogni linguaggio formale.  Il discorso delle mani supera la grammatica d'ogni parola e sguardo. Ma soprattutto,  le mani raccontano l'assenza, dicono che non possiamo trattenere e che ogni incontro è già una mancanza.

polange

LE MANI  di Vittorio Sereni


Queste tue mani a difesa di te:



mi fanno sera sul viso.


Quando lente le schiudi, là davanti


la città è quell’arco di fuoco.


Sul sonno futuro


saranno persiane rigate di sole


e avrò perso per sempre


quel sapore di terra e di vento


quando le riprenderai.







LE MANI DI ELSA     di Louis Aragon


Dammi le tue mani per l'inquietudine


Dammi le tue mani di cui tanto ho sognato


Di cui tanto ho sognato nella mia solitudine


Dammi le tue mani perch'io venga salvato.


Quando le prendo nella mia povera stretta


Di palmo e di paura di turbamento e fretta


Quando le prendo come neve disfatta


Che mi sfugge dappertutto attraverso le dita.



Potrai mai sapere ciò che mi trapassa


Ciò che mi sconvolge e che m'invade


Potrai mai sapere ciò che mi trafigge


E che ho tradito col mio trasalire.



Ciò che in tal modo dice il linguaggio profondo


Questo muto parlare dei sensi animali


Senza bocca e senz'occhi specchio senza immagine


Questo fremito d'amore che non dice parole


Potrai mai sapere ciò che le dita pensano


D'una preda tra esse per un istante tenuta


Potrai mai sapere ciò che il loro silenzio


Un lampo avrà d'insaputo saputo.



Dammi le tue mani ché il mio cuore vi si conformi


Taccia il mondo per un attimo almeno


Dammi le tue mani ché la mia anima vi s'addormenti


Ché la mia anima vi s'addormenti per l'eternità.







LES MAINS D’ELSA



Donne-moi tes mains pour l’inquiétude

Donne-moi tes mains dont j’ai tant rêvé

Dont j’ai tant rêvé dans ma solitude

Donne-moi tes mains que je sois sauvé

Lorsque je les prends à mon propre piège

De paume et de peur de hâte et d’émoi

Lorsque je les prends comme une eau de neige

Qui fuit de partout dans mes mains à moi

Sauras-tu jamais ce qui me traverse

Qui me bouleverse et qui m’envahit

Sauras-tu jamais ce qui me transperce

Ce que j’ai trahi quand j’ai tressailli

Ce que dit ainsi le profond langage

Ce parler muet de sens animaux

Sans bouche et sans yeux miroir sans image

Ce frémir d’aimer qui n’a pas de mots

Sauras-tu jamais ce que les doigts pensent

D’une proie entre eux un instant tenue

Sauras-tu jamais ce que leur silence

Un éclair aura connu d’inconnu

Donne-moi tes mains que mon coeur s’y forme

S’y taise le monde au moins un moment

Donne-moi tes mains que mon âme y dorme

Que mon âme y dorme éternellement..



SUR



 Vuelvo al Sur   Musica di Astor Piazzolla - Parole di Fernando Pino Solanas, colonna sonora del film Sur, di Solanas


Questione di latitudini.
Il Sud è sempre l' "altra" latitudine. E' la posizione degli esseri e delle cose in una singolare geografia dell'anima che presuppone sguardo profondo e camminare senza andare in cerca, un restare nel passo lento del ritorno e della nostalgia, nella dimensione obliqua del movimento accompagnato da venti e soli e mari. E' un posto che vuol dire "qui ogni cosa è possibile", un abitare il mondo con i tempi dell'esitazione, che dilatano orizzonti e sfumano certezze, liberano lo spirito da troppo all'attracco del pensiero e lo rendono al sentire, soffio di anima dal taglio salino, finalmente al largo, in mare aperto. Il Sud non ha filosofia ma solo musica che attraversa...scorre senza sosta in paesaggio che si scioglie in acqua marina, ha memoria viva della tenda equatoriale mossa dal vento che scuote vastità assolate e cuori senza più catena.
polange

 SUR

Da uno dei tuoi cortili aver guardato


le antiche stelle,

dalla panchina dell'ombra aver guardato

quelle luci disperse

che la mia ignoranza non ha imparato a nominare

né a ordinare in costellazioni,

aver sentito il cerchio dell'acqua

nella segreta cisterna,

l'odore del gelsomino e della madreselva,

il silenzio dell'uccello addormentato,

l'arco dell'androne, l'umidità

- queste cose, forse, sono la poesia.
 
 
JORGES LOUIS BORGES
 
 
Versione di Vuelvo al Sur di Caetano Veloso del 2011...
 



Torno al sud come si torna sempre all'amore


torno da te con desiderio e con timore


porto il sud come un destino dentro al cuore


sono del sud come il respiro del bandoneon


sogno il sud immensa luna primo dolore


io cerco il sud in ogni sguardo in ogni colore


amo il sud con la sia gente la sua dignità


sento il sud come il tuo corpo nell'intimità


torno al sud come si torna sempre all'amore


torno da te con desiderio e con timore


amo il sud con la sua gente le sua dignità


sento il sud come il tuo corpo nell'intimità


ti amo sud  

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Vuelvo al Sur,


como se vuelve siempre al amor,

vuelvo a vos,

con mi deseo, con mi temor.


Llevo el Sur,

como un destino del corazon,

soy del Sur,

como los aires del bandoneon.



Sueño el Sur,

inmensa luna, cielo al reves,

busco el Sur,

el tiempo abierto, y su despues.



Quiero al Sur,

su buena gente, su dignidad,

siento el Sur,

como tu cuerpo en la intimidad.



Te quiero Sur,

Sur, te quiero.



Vuelvo al Sur,

como se vuelve siempre al amor,

vuelvo a vos,

con mi deseo, con mi temor.



Quiero al Sur,

su buena gente, su dignidad,

siento el Sur,

como tu cuerpo en la intimidad.

Vuelvo al Sur,

llevo el Sur,

te quiero Sur,

te quiero Sur...










mercoledì 30 maggio 2012

Fragilità





Non aver paura



di essere un fiore fragile


lo siamo tutti


prima che smetta


la tempesta.






Tu non lo sai


ma quando ami


regali brividi alla terra.





Nicoletta Bidoia

SPECCHIO




Ed ecco sul tronco


si rompono gemme:


un verde più nuovo dell'erba


che il cuore riposa:


il tronco pareva già morto,


piegato sul botro.


e tutto mi sa di miracolo;


e sono quell'acqua di nube


che oggi rispecchia nei fossi


più azzurro il suo pezzo di cielo,


quel verde che spacca la scorza


che pure stanotte non c'era.






Quasimodo

DA NOI



Fai bene a dire tenere invece di avere. Avere è presuntuoso, invece tenere lo sa che oggi tiene e domani chi sa se tiene ancora.
   da Montediddio, Erri De Luca


Da noi non si pronuncia l'ultima vocale,



le parole restano sospese.


L'inverno è viern', il resto è la stagione.


Prima e dopo sono primm' e dopp',


hanno più carne e ossa del presente, che è solamente:


mo'.


L'ammor' nuosto è più tosto di amore,


più svergognata 'a famm' della fame,


i soldi sono 'e sord, il soldato 'o surdat',


più sordo che assoldato.


Da noi il "c'è" non c'è, pero ci sta.


Nessuno ha, però ci sta chi tiene.


Da noi non piove: chiove. La pioggia non infradicia


ma 'nfraceta, marcisce.


Il sangue è 'o sang' e vale meno di un bicchiere


d'acqua.


Da noi se ne devi andartene, fai che sei già partito,


pure prima di adesso, primm' 'e mo'.


Teniamo il verbo più veloce del mondo, andare: i'.


Se te ne devi andare, t' n' ia i'.


Erri De Luca







lunedì 28 maggio 2012

FASE D'ORIENTE



Le parole dereglées, alla Rimbaud. Lo spaesamento semantico, l'audace accoppiata di ciò che restituisce candore immacolato non logorato dal troppo uso e sorpresa, sorpresa, come il riflessivo "Ci vendemmia il sole", come il "marcare" la terra come aratro, con un corpo che pesa e tuttavia fa germogliare desiderio, spinge promesse consegnate alla deriva. La vera poesia è linguaggio nuovo, reinventato, in cui nulla è al suo posto e la visione è netta. La fase d'oriente non è che desiderio germinante, come un frutto spontaneo, come pianta, come radice,  che scava la terra.

polange


FASE D'ORIENTE


Nel molle giro di un sorriso



ci sentiamo legare da un turbine


di germogli di desiderio




Ci vendemmia il sole



Chiudiamo gli occhi


per vedere nuotare in un lago


infinite promesse


Ci rinveniamo a marcare la terra


con questo corpo


che ora troppo ci pesa.



Giuseppe Ungaretti

domenica 27 maggio 2012

GLI ANNI



All'approssimarsi di scadenze importanti, viene sempre il sospetto che non ci
sia nulla da festeggiare. Trenta, quaranta, cinquanta e così via, sono date che non significano nulla, nulla nella  infinitesima  parte di tempo che ci è dato sperimentare. Ci ostiniamo però a segnare i minuti, le ore, gli anni, a voler demarcare traguardi, a celebrare compimenti e a beneaugurare futuri improbabili. Il rito diventa più rilevante della realtà che ci vede prigionieri di un destino che si fa da sé per quanto tentiamo di plasmarlo a nostro piacere, serrandoci in una miriade di ingannevoli scelte che escludono per sempre ogni possibilità contenuta in noi e ci raffigurano come siamo, con zig-zag e ritorni e false partenze. Detesto i compleanni, soprattutto il mio, l’officiare inutile a tutto ciò che c’è, alla beffa del tempo, l’elegia finto-allegra a ciò che non siamo stati e mai saremo, alle strade che non abbiamo preso, ai volti che non abbiamo incontrato, alle mani che non abbiamo stretto, ai luoghi che non abbiamo attraversato. Poco prima dei miei quarant’anni ho infilato nel mio portafoglio  la fotocopia delle prime due pagine del racconto di Ingeborg Bachmann Il trentesimo anno. Proprio così mi sono sentita da quel giorno in poi. E ancora, la sensazione è la stessa. La seccatura del forzato passaggio dal revocabile all’irrevocabile. Questa certezza del compiuto che già disegna intorno steccati.
Una forma di ribellione, un gesto sovversivo, tra i molti, è forse sfuggire con garbo  i genetliaci propri e altrui.

polange

“Di uno che entra nel suo trentesimo anno non si smetterà di dire che è giovane. Ma lui, benché non riesca a scoprire in se stesso alcun mutamento, non ne è più così sicuro: gli sembra di non aver più diritto di farsi passare per giovane. E la mattina di un giorno che poi scorderà si sveglia e, tutt’a un tratto, rimane lì steso senza riuscire ad alzarsi, colpito dai raggi di una luce crudele e sprovvisto di ogni arma e di ogni coraggio per affrontare il nuovo giorno. Non appena chiude gli occhi per proteggersi, si sente andar giù e precipita in un deliquio in cui trascina con sé ogni istante vissuto. Continua a sprofondare e il suo grido non ha suono e precipita in una voragine senza fondo finché non perde i sensi, finché non si è dissolto, spento e annientato tutto ciò che egli credeva d’essere. Perché prima di allora aveva semplicemente vissuto alla giornata, ogni giorno tentato qualcosa di nuovo, senza ombra di malizia. S’immaginava di avere innumerevoli possibilità e credeva, per esempio, di poter diventare qualsiasi cosa. […]

S’era cullato per tanti anni nei pensieri più estremi, nei progetti più mirabolanti, e poiché non possedeva altro che giovinezza e salute, e gli sembrava di avere davanti a sé ancora tanto tempo, aveva detto di sì a ogni lavoro occasionale. Aveva dato lezioni private agli studenti in cambio di un piatto di minestra, aveva venduto giornali, spalato la neve per cinque scellini l’ora e intanto aveva studiato i Presocratici. Era entrato in una ditta come studente lavoratore, ma si era licenziato non appena trovato lavoro in un giornale; gli avevano fatto fare dei servizi su un nuovo trapano per dentista, sulla ricerca gemellare, sui lavori di restauro nella Cattedrale di Santo Stefano. Poi un giorno si mise in viaggio senza soldi, fece l’autostop, utilizzò gli indirizzi di terzi avuti da un ragazzo che conosceva appena, fece qualche tappa e proseguì. In autostop attraversò l’Europa, ma poi, seguendo un’improvvisa decisione, ritornò indietro, preparò degli esami per poter esercitare una professione redditizia che però si rifiutava di considerare la sua professione definitiva, e questi esami li superò. […]

In ogni occasione aveva detto di sì, a un’amicizia, a un amore, a una proposta, ogni volta per prova, su richiesta. Il mondo intero gli pareva revocabile, lui stesso revocabile. Mai, neanche per un attimo, aveva temuto che il sipario potesse alzarsi come ora sul suo trentesimo anno, che toccasse a lui pronunciare la battuta, che un giorno avrebbe dovuto dimostrare ciò che realmente era capace di pensare e di fare, e confessare di che cosa gli importasse davvero. Non aveva mai pensato che di mille e una possibilità forse già mille erano ormai sfumate e perdute – oppure che sarebbe stato costretto a perderle perché una sola era la sua. Mai aveva riflettuto. Mai di nulla aveva avuto paura. Ora sa che anche lui è in trappola”.


Ingeborg Bachmann, tratto da  Il trentesimo anno






martedì 22 maggio 2012

FALSE PARTENZE



Ho trovato questi versi sulla prima pagina di un mio vecchio moleskine. Ci sono momenti nei quali ci si persuade della propria immobilità, seduti alla pietra nel tempo dell'attesa. Nostalgia d'infinito e mancanza senza nome, ci si inscrive nel disegno dell'impossibile e lì ci si trattiene, in una ipossia di vita che sfiora il fondo prima di risalire in superficie e cominciare il nuoto, la traversata per conquistare almeno un poco di quel non essere rimasto al palo e mai partito.

polange


(biglietto lasciato prima di non andare via)


Se non dovessi tornare, sappiate che non sono mai partito. Il mio viaggiare è stato tutto un restare qua, dove non fui mai.


Giorgio Caproni


Allo stesso modo, il desiderio di andare via, il circuito chiuso del continuo partire con l'illusione di un rettilineo, la frenesia del viaggiare da inquieti, non è che un non vedere e non trovare. Basterebbe una sosta presso se stessi per aprire gli occhi. Posarli là dove ci vuole.
polange

Lungo molti anni,
a grande prezzo,
viaggiando attraverso molti paesi,
andai a vedere alte montagne
andai a vedere oceani.


Soltanto non vidi
dallo scalino della mia porta
la goccia di rugiada scintillante
sulla spiga di grano.




Rabindranath Tagore









lunedì 21 maggio 2012

SII DOLCE CON ME

Ringraziamo ogni tanto.


Sii dolce con me. Sii gentile.



E’ breve il tempo che resta. Poi


saremo scie luminosissime.


E quanta nostalgia avremo


dell’umano. Come ora ne


abbiamo dell’infinità.









Ma non avremo le mani. Non potremo


fare carezze con le mani.


E nemmeno guance da sfiorare


leggère.




Una nostalgia d’imperfetto


ci gonfierà i fotoni lucenti.


Sii dolce con me.


Maneggiami con cura.


Abbi la cautela dei cristalli


con me e anche con te.




Quello che siamo


è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei


e affettivo e fragile. La vita ha bisogno


di un corpo per essere e tu sii dolce


con ogni corpo. Tocca leggermente


leggermente poggia il tuo piede


e abbi cura


di ogni meccanismo di volo


di ogni guizzo e volteggio


e maturazione e radice


e scorrere d’acqua e scatto


e becchettio e schiudersi o


svanire di foglie


fino al fenomeno


della fioritura,


fino al pezzo di carne sulla tavola


che è corpo mangiabile


per il mio ardore d’essere qui.



Ringraziamo. Ogni tanto.




Sia placido questo nostro esserci –


questo essere corpi scelti


per l’incastro dei compagni

d’amore.

Mariangela Gualtieri

Il video...










ANCORA COMETE



Hanno detto che è stata una cometa



che impattando con duro della terra


ha portato l'acqua fra le pietre


del nostro pianeta.






Una cometa hanno detto.


Un ghiaccio volante di luce


come scagliato da altre stelle


fin qui. E dentro c’era


la legge della specie, la formula


del sangue e delle linfe


il timbro di ogni voce.






L’acqua è la perfetta chiave


che apre le forme scatenate.


L’acqua che ancora beviamo


è stata strascico di luce


viaggiante. Bastimento abbagliante


nel buio fra i mondi.





Mariangela Gualtieri , Bestia di Gioia, Einaudi



sabato 19 maggio 2012

BESTIA DI GIOIA


Versi di una bellezza folgorante...mozzafiato...essiccare in diamante...


Un secolo di polveri pesa


sopra le nostre palpebre


calcinacci nella camera


del cuore. Appesa è


la leggenda


che ripete il suo no


detto controcorrente, non deponiamo


le altezze al primo mercante,


non abbassiamo il pilotaggio


dell’astronave.




Questa sfolgoranza in noi preme


per combustare in fuoco. Essiccare


in diamante. Quanta vastità


dentro l’umano


e il lieve involucro del corpo


è un aggregato intorno al suono


che ci chiamò.




Lo sento ora con una precisione


di parole che metto qui per te.


Dirti questa visione semplice.


Nessun metraggio ci contiene


nessun confine di sponda


nessun nome è bastante


in nessuna foto noi veniamo


nessuna telecamera riprende per intero


questo essere nostro che slegato si estende


tutto impastato di infinità.




La gioia si condensa


in particelle legate, si fa sfera rotante


e firmamento, si getta


nella vita danzante


senza perire, senza esaurire


immutata, intoccata, seducente.




Conduce a sé e il morire dei corpi non è


che l’entrare fuori misura.


Senza chili, senza metri, senza


particelle. Alleluiare








da “BESTIE DI GIOIA” di Mariangela Gualtieri
Einaudi- 2010

impronta




L'indifferenza è inferno senza fiamme
ricordalo scegliendo fra mille tinte
il tuo fatale grigio.
 
Se il mondo è senza senso
tua è la vera colpa.
Aspetta la tua impronta
questa palla di cera.
 
Maria  Luisa Spaziani

venerdì 18 maggio 2012

la traversata dell'oasi

Ibernati, incoscienti, inesistenti,



proveniamo da infiniti deserti.


Fra poco altri infiniti ci apriranno


ali voraci per l’eternità.





Ma qui ora c’è l’oasi, catena


di delizie e tormenti. Le stagioni


colorate ci avvolgono, le mani


amate ci accarezzano.



Un punto infinitesimo nel vortice


che cieco ci avviluppa. C’è la musica


(altrove sconosciuta), c’è il miracolo


della rosa che sboccia, e c’è il mio cuore.



Maria Luisa Spaziani


mercoledì 16 maggio 2012

la musica ultrasuono



Non chiedermi parole oggi non bastano.



Stanno nei dizionari: sia pure imprevedibili


nei loro incastri, sono consunte voci.


È sempre un prevedibile dejà vu.


Vorrei parlare con te - è lo stesso con Dio -


tramite segni umbratili di nervi,


elettrici messaggi che la psiche


trae dal cuore dell'universo.






Un fremere d'antenne, un disegno di danza,


un infinitesimo battere di ciglia,


la musica-ultrasuono che nemmeno


immaginava Bach.


Maria Luisa Spaziani




L'universo come specchio

Il Palomar di Calvino è l'essere con gli occhi aperti, personaggio a me caro tra tutti i personaggi di carta. In cerca di armonia in mezzo a un mondo tutto dilaniamenti e stridori, come dice il suo autore. Il suo nome viene dal nome dell'osservatorio astronomico di Mount Palomar in California. Il libro è una raccolta di articoli apparsi sul Corriere della Sera. "Rileggendo il tutto, -scrive Calvino, m'accorgo che la storia di Palomar si può riassumere in due frasi: " un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato."
polange

§§§§§

Il signor Palomar soffre molto della sua difficoltà di rapporti col prossimo. Invidia le persone che hanno il dono di trovare sempre la cosa giusta da dire, il modo giusto di rivolgersi a ciascuno; che sono a loro agio con chiunque si trovino e che mettono gli altri a loro agio; che muovendosi con leggerezza tra la gente capiscono subito quando devono difendersene e prendere le loro distanze e quando guadagnarsi la simpatia e la confidenza; che dànno il meglio di sé nel rapporto con gli altri e invogliano gli altri a dare il loro meglio; che sanno subito quale conto fare d'una persona in rapporto a sé e in assoluto. "Queste doti, - pensa Palomar col rimpianto di chi ne è privo, - sono concesse a chi vive in armonia col mondo. A costoro riesce naturale stabilire un accordo non solo con le persone ma pure con le cose, con i luoghi, le situazioni, le occasioni, con lo scorrere delle costellazioni nel firmamento, con l'aggregarsi degli atomi nelle molecole. Quella valanga d'avvenimenti simultanei che chiamiamo l'universo non travolge il fortunato che sa sgusciare per gli interstizi più sottili tra le infinite combinazioni, permutazioni e catene di conseguenze, evitando le traiettorie dei meteoriti micidiali e intercettando al volo solo i raggi benefici. A chi è amico dell'universo, l'universo è amico. Potessi mai, - sospira Palomar, - essere anch'io cos¡!" Decide di provare a imitarli. Tutti i suoi sforzi, d'ora in poi, saranno tesi a raggiungere un'armonia tanto col genere umano a lui prossimo quanto con la spirale più lontana del sistema delle galassie.

Per cominciare, dato che col suo prossimo ha troppi problemi, Palomar cercherà di migliorare i suoi rapporti con l'universo. Allontana e riduce al minimo la frequentazione dei suoi simili; s'abitua a fare il vuoto nella sua mente, espellendone tutte le presenze indiscrete; osserva il cielo nelle notti stellate; legge libri d'astronomia; si familiarizza con l'idea degli spazi siderei finché questa non diventa una suppellettile permanente del suo arredamento mentale. Poi cerca di fare in modo che i suoi pensieri tengano presenti contemporaneamente le cose più vicine e le più lontane: quando accende la pipa l'attenzione per la fiamma dello zolfanello che alla prossima tirata dovrebbe lasciarsi aspirare fino in fondo al fornello dando inizio alla lenta trasformazione in brace dei fili di tabacco, non deve fargli dimenticare nemmeno per un attimo l'esplosione d'una supernova che si sta producendo nella Grande Nube di Magellano in questo stesso istante, cioè qualche milione d'anni fa. L'idea che tutto nell'universo si collega e si risponde non l'abbandona mai: una variazione di luminosità nella Nebulosa del Granchio o l'addensarsi d'un ammasso globulare in Andromeda non possono non avere una qualche influenza sul funzionamento del suo giradischi o sulla freschezza delle foglie di crescione nel suo piatto d'insalata. Quando è convinto d'aver esattamente delimitato il proprio posto in mezzo alla muta distesa delle cose galleggianti nel vuoto, tra il pulviscolo d'eventi attuali o possibili che si libra nello spazio e nel tempo, Palomar decide che è venuto il momento di applicare questa saggezza cosmica al rapporto coi suoi simili.

 S'affretta a tornare in società, riallaccia conoscenze, amicizie, rapporti d'affari, sottopone a un attento esame di coscienza i suoi legami e i suoi affetti. S'aspetta di vedere estendersi davanti a sé un paesaggio umano finalmente netto, chiaro, senza nebbie, in cui egli potrà muoversi con gesti precisi e sicuri. E' cos¡? Nient'affatto. Comincia a impelagarsi in un garbuglio di malintesi, vacillazioni, compromessi, atti mancati; le questioni più futili diventano angoscianti, le più gravi s'appiattiscono; ogni cosa che lui dice o fa risulta maldestra, stonata, irresoluta. Cos'è che non funziona? Questo: contemplando gli astri lui s'è abituato a considerarsi un punto anonimo e incorporeo, quasi a dimenticarsi d'esistere; per trattare adesso con gli esseri umani non può fare a meno di mettere in gioco se stesso, e il suo se stesso lui non sa più dove si trova. Di fronte a ogni persona uno dovrebbe sapere come situarsi in rapporto a essa, esser sicuro della reazione che ispira in lui la presenza dell'altro - avversione o attrazione, ascendente sub¡to o imposto, curiosità o diffidenza o indifferenza, dominio o sudditanza, discepolanza o magistero, spettacolo come attore o come spettatore, - e in base a queste e alle controreazioni dell'altro stabilire le regole del gioco da applicare nella loro partita, le mosse e le contromosse da giocare. Per tutto questo uno prima ancora di mettersi a osservare gli altri dovrebbe sapere bene chi è lui.

 La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso; ed è proprio questa che manca a Palomar. Non solo conoscenza ci vuole, ma comprensione, accordo con i propri mezzi e fini e pulsioni, il che vuol dire possibilità d'esercitare una padronanza sulle proprie inclinazioni e azioni, che le controlli e diriga ma non le coarti e non le soffochi. Le persone di cui egli ammira la giustezza e naturalezza d'ogni parola e d'ogni gesto sono, prima ancora che in pace con l'universo, in pace con se stessi. Palomar, non amandosi, ha sempre fatto in modo di non incontrarsi con se stesso faccia a faccia; è per questo che ha preferito rifugiarsi tra le galassie; ora capisce che è col trovare una pace interiore che doveva cominciare. L'universo forse può andar tranquillo per i fatti suoi; lui certamente no.

La strada che gli resta aperta è questa: si dedicherà d'ora in poi alla conoscenza di se stesso, esplorerà la propria geografia interiore, traccerà il diagramma dei moti del suo animo, ne ricaverà le formule e i teoremi, punterà il suo telescopio sulle orbite tracciate dal corso della sua vita anziché su quelle delle costellazioni. "Non possiamo conoscere nulla d'esterno a noi scavalcando noi stessi, - egli pensa ora, - l'universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi". Ed ecco che anche questa nuova fase del suo itinerario alla ricerca della saggezza si compie. Finalmente egli potrà spaziare con lo sguardo dentro di sé. Cosa vedrà? Gli apparirà il suo mondo interiore come un calmo immenso ruotare d'una spirale luminosa? Vedrà navigare in silenzio stelle e pianeti sulle parabole e le ellissi che determinano il carattere e il destino? Contemplerà una sfera di circonferenza infinita che ha l'io per centro e il centro in ogni punto? Apre gli occhi: quel che appare al suo sguardo gli sembra d'averlo già visto tutti i giorni: vie piene di gente che ha fretta e si fa largo a gomitate, senza guardarsi in faccia, tra alte mura spigolose e scrostate. In fondo, il cielo stellato sprizza bagliori intermittenti come un meccanismo inceppato, che sussulta e cigola in tutte le sue giunture non oliate, avamposti d'un universo pericolante, contorto, senza requie come lui.

Tratto da Palomar, di Italo Calvino

ANCH' IO


L'impossibile. Arrivare a comprendere, fare breccia in quel muro per rischiarare l'adesso una volta per tutte.   Come fanno gli altri, come hanno fatto tutti.  Anch'io.  Come svuotare il mare con il cavo di una mano - come spaccare pietre con le unghie, eppure provarci. Questo dà senso, questa sconfitta annunciata ha un po' il sapore della rivolta che doveva aver animato il Sisifo di Camus. Giorgio Caproni così commenta la sua poesia "Anch'io": «Per me il rovello o mistero dell’esistenza è qua, impenetrabile alla vista opponendosi il “muro della terra”, per usare un’espressione dantesca che forse adotterò come titolo. C’è un piccolo pazzo, nel mio libro, che vorrebbe forare quel muro, ma non per vedere cosa c’è di là, bensì cosa c’è di qua: qua».
polange



Ho provato anch’io



E’ stata tutta una guerra


d’unghie. Ma ora so. Nessuno


potrà mai perforare


il muro della terra.




Giorgio Caproni

ASSENZE


Certe assenze non sono mai delle mancanze...bisogna esser bravi a riconoscere la "curva ardente" che si disegna nel sangue con la matita della tenerezza. E poi basta esserci per non perdere nulla, tutto ci resta attaccato, impigliato, diventa noi, i nostri gesti, il nostro guardare.   polange



Non sono dei ricordi


a trattenerti in me;


né ti fa mia la forza


di un bel desiderio.




Quanto ti fa presente


è quella curva ardente


che una lenta tenerezza


descrive nel mio sangue.






Io non sento il bisogno


di vederti apparire;


mi è bastato nascere


per perderti un po' meno.




 
Rainer Maria Rilke