sabato 27 febbraio 2010

OVUNQUE PROTEGGI


Ci sono canzoni che hanno il dono della grazia e della leggerezza calviniana, melodie che sembrano inscindibili dalle parole che le accompagnano e che ci appaiono "smisurate" nella loro perfezione come se ci gettassero addosso tutto il peso, la durezza acre dell'esistere e poi d'improvviso ci levassero al cielo spezzando catene, liberandoci dalle scorie impure del quotidiano per condurci in un luogo che forse, credenti e non credenti, a Oriente e ad Occidente, non sappiamo più riconoscere, il luogo della speranza senza il disperare, la casa del sacro e dell'umano. Le preghiere non si affacciano solo nei luoghi di culto, le preghiere dei cori greci erano quelle rivolte a scongiurare gli dei dal temibile peggio, la preghiera come cosa dell'anima che attinge al profondo è una dichiarazione di libertà e di perdono recitata in ogni stagione.
Omnia munda mundis, "tutto è puro per i puri" è scritto ma Nietzsche aggiungeva sarcastico che "tutto sa di porco per il porco". Il mondo che noi abitiamo non è che la visione del mondo di ognuno, e, mi rendo conto, che la grazia necessita di molti sostenitori in questa fase storica. L'ultima qualità che il conformismo cerca è la levità della grazia, l'ultimo posto in cui la si cerca è in alto e nel profondo di sè.

Ma si sa, per chi viene da lontano, dai luoghi sacri della memoria e conosce l'arte paziente del custodire, per chi è cresciuto inseguendo senso e ragione, sbagliando strada per cominciare sempre e di nuovo, perduto dietro i propri sè, uguale e diverso in ogni tempo, in attesa, in attesa di un ritorno, un ritorno che vada oltre i "prima" e i "poi" - la grazia è un dono naturale. Viene come il sole, la pioggia, il vento...basta esser vivi.
polange


A questo pezzo, Vinicio Capossela fa precedere , durante i suoi concerti, il passo dell'Ecclesiaste:


Omnia tempus habent,
et momentum suum cuique negotio sub caelo:
tempus nascendi et tempus moriendi,
tempus plantandi et tempus evellendi quod plantatum est,
tempus occidendi et tempus sanandi,
tempus destruendi et tempus aedificandi,
tempus flendi et tempus ridendi,
tempus plangendi et tempus saltandi,
tempus spargendi lapides et tempus eos colligendi,
tempus amplexandi et tempus longe fieri ab amplexibus,
tempus quaerendi et tempus perdendi,
tempus custodiendi et tempus abiciendi,
tempus scindendi et tempus consuendi,
tempus tacendi et tempus loquendi,
tempus dilectionis et tempus odii,
tempus belli et tempus pacis.


Antico Testamento, Liber Ecclesiastes III, vv. 1-8 *





__________

* [1] Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
[2] C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.

[3] Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.

[4] Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.

[5] Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

[6] Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.

[7] Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.

[8] Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

venerdì 26 febbraio 2010

Monologo del non so


Per tutte le volte che giro in tondo e vorrei capire...
polange


Io non so se questa mia vita sta spianata su un

buco vuoto. Non so se il silenzio che indago

é intrecciato alla mia sostanza molle.

Io non so se quello che cerco e ho cercato e

cercherò, non so se quello che cerco

é un insulto a quel vuoto.

Non so se questo fatto di non avere

un paio d’ali sia premio o castigo,

io non so se la polveriera

della mia inquietudine sia un trono

su cui mi siedo minacciato, se la fuga che

a scatti regolari mi pungola, se quel

puerile sogno di fuga sia uno sgambetto

d’angelo, d’un buffone d’angelo che

mi vuole inciampare.

Io non so se l’amore sia una guerra o una

tregua, non so se l’abbandono d’amore

sia una legge che la vita cuce fino al

ricamo finale. Io non so

che farmene di questi nemici che premono,

non so che farmene oggi di questo oggi e me lo ciondolo fra le dita perplesse,

non so parlare di quello che

è sentito nel profondo me, non so parlarlo

quell’essere che é qui presente fra le vite degli

altri.


Io non so perché guardando l’acqua del mare

mi salta in petto una gioia di figlio con la

madre. Non so se questa uscita mia in un secolo

a caso, se questo essere qui a casaccio,

io non so spiegarmi questa malattia

all’attacco del mondo, non so guarire

questa malattia che indolora e vorrei

sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di

tregua, in un’arcadia anche retorica,

in un dormire abbracciato dei

guerrieri che si innamorano.

Io non ho capito e dovrei,

non ho capito il mondo della

vita, io non ho capito la legge sottostante

e non ho da fare la consegna a

questi cuccioli che aspettano, che esigono

da me l’aver capito.



Il mio Graal l’ho ritrovato e perso cento

volte.


Io non so se la bellezza è questa accademia di

centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa

carnevalesca decadenza di saltimbanchi,

io non mi spiego la crocifissione

della grazia, e non mi spiego perchè

mi trovo in questo covo rivoltato

in questa fossa con gli orchi attuali

in questo lato barbarico della specie,

e non so perchè stando a occidente non si

ode quell’alleluia delle cose.

Io non so se in questa schiena

senza ali ci son grandi pianure da cui fare

il decollo, se in questa spina dorsale

ci sono istruzioni

per la manovra di decollo, se sono io la freccia

di questo arco della schiena, se sono io

arco e freccia, non so in quale mano

non mano o zampa di Dio mi stanno

torchiando, e sottoponendo al duro

allenamento dei dolori terrestri.

Io non so se la solitudine, se quello

strazio chiamato solitudine, se quell’andare

via dei corpi cari, se quel restare soli

dei vivi, io non so se quel lamento della

solitudine, se quel portarci via le facce

se quel loro sparire

di facce che avevamo dentro il respiro, non so

se il dono sia questo portarci via le

carezze, questa slacciatura.

E’ poco il poco che so e di questo

poco io chiedo perdono. Io chiedo

perdono per quello che so, perdono io chiedo

per tutto quello che so.



( Da Parsifal, in Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, di Mariangela Gualtieri, Einaudi, 2005

venerdì 19 febbraio 2010

LA GUERRA DELL'ACQUA

La guerra dell’acqua

articolo apparso venerdì 19 febbraio, 2010 su ZonaFranca
http://www.zonafrancanews.it/opinione/opinione/la-guerra-dellacqua

scritto da Angela Poli

In questi ultimi mesi, è in atto in Italia uno scontro tra enti locali, Movimenti civili e Governo su una questione dalla cui soluzione dipenderà il destino di noi tutti e anche quello delle generazioni future. L’oggetto della battaglia è l’”oro blu” del nuovo millennio, l’acqua, una conquista del XX secolo portata dritto nelle nostre case e che oggi diventa, grazie ad un decreto blindato in Parlamento a fine novembre, una merce qualunque, come una camicia o un sacchetto di popcorn acquistati al centro commerciale. La privatizzazione dell’acqua è passata nell’ articolo 15 di un decreto rabberciato divenuto legge con voto di fiducia, contenente un po’ di tutto, indicazioni sull’uso del marchio “Tutto italiano”, nuove disposizioni sugli elettrodomestici, le lampadine e altro. Inizia così, all’insaputa dei più, un’era nuova, che apre i battenti alla gestione privata e ai capitali finanziari e che “costringe” gli enti locali a liquidare il sistema idrico al miglior offerente. L’idea di fondo, o la pia illusione, è che i privati garantiscano più efficienza attraverso un ammodernamento della rete idrica. Inoltre, si tratterebbe di un’abile manovra per rimpinguare le casse in quei Comuni immiseriti dal taglio dell’ICI. E’ noto che quei Comuni italiani da tempo serviti dalle grandi Spa o multinazionali vedono un aumento delle tariffe a fronte di un peggioramento dei servizi. Quello che si tace, ignorando la legislazione europea, è che la privatizzazione dell’acqua è il tentativo di depredare un territorio già aggredito da malavita e malaffare, è la svendita silenziosa di un patrimonio comune, e vendere al cittadino a caro prezzo l’acqua dei fiumi, dei pozzi, delle sorgenti demaniali equivale al commercio dell’aria, del sole, del mare…insomma, Totò che tenta di vendere la Fontana di Trevi.

In tutto il mondo assistiamo alla lotta tra il diritto all’acqua e le multinazionali pronte a gettarsi nell’affare del secolo. La straordinaria crescita del nostro pianeta con le più aspre conseguenze dei mutamenti climatici fanno sì che gli anni che verranno vedranno la riduzione del livello dell’acqua potabile che diverrà sempre più preziosa. Molti pensano che se le guerre del XX secolo miravano al petrolio, quelle del XXI secolo avranno come oggetto del contendere l’acqua. L’acqua è fonte di vita, è bene comune dell’umanità e diritto inalienabile, non è soggetta a leggi di mercato, è diritto fondamentale della persona e non una merce, questi sono i principi che a partire dalla Carta Europea dell’Acqua del 1968 fino al Contratto Mondiale dell’Acqua ispirano le società civili e le politiche in tutto il pianeta.

Intanto in Italia è rivolta dei Sindaci, mentre in Puglia, per primo, il governatore Nichi Vendola con la sua giunta, impugna l’articolo 15 del decreto Ronchi per incostituzionalità, delibera la ripubblicizzazione dell’Acquedotto pugliese e getta le basi di una politica virtuosa a difesa del diritto di tutti all’acqua come “bene essenziale e insostituibile per la vita”. Seguono l’esempio pugliese numerosi Comuni italiani di diversi colori politici e di recente anche la giunta regionale piemontese. Il Papa l’ha scritto nella sua recente enciclica, i vescovi lo ripetono, i sacerdoti di Altamura firmano una petizione: l’acqua non ha padroni.

Ma come funziona altrove? A Parigi, il sindaco Delanoë ripubblicizza l’acqua con un ente pubblico denominato “Eau de Paris” con grande risparmio per i cittadini. Gli Stati Uniti si tengono stretta la loro acqua municipalizzata. La Svizzera ha fatto dietrofront e ha posto il monopolio di Stato sull’acqua. Molti paesi dell’America Latina introducono nel loro statuto il principio di “acqua bene comune dell’umanità”. La questione richiede una nuova dimensione etica del pubblico e della gestione dei beni comuni. E’ il tema che dovrebbe riguardare non solo le agende politiche di chi fa politica per la gente e non per il Mercato ma anche il semplice cittadino. Per non rinunciare alla propria porzione di sovranità e quindi ai propri diritti e a quelli dei propri figli a favore della legge cinica del Mercato che tutto mercifica, e che tenterà dopo lo shopping dell’acqua di venderci l’aria che respiriamo, l’ultimo elemento empedocleo rimasto non ancora confezionato per l’acquisto.

Sermone ai cuccioli della mia specie


[Water walk - Josef Hoflehner]

Cari cuccioli,
vi ho guardato a lungo.
Ero lì nascosta nel buio
e vi guardavo giocare,
nascosta nel buio come una carogna,
come una spia che studia
il nemico, come un ladro che aspetta
il momento buono,
come un terrorista
che guarda a distanza
e fa i suoi piani d’innesco.
Io vi guardavo ammutolita,
intenerita da voi,
cari cuccioli della mia specie,
e poi anche disgustata da voi
che eravate lì inermi a un palmo dal
mio naso.

Siete indeboliti cuccioli. Siete
Spaventati e soli. Siete avidi. Siete sazi. Siete svuotati.
Sfiniti siete. Siete vinti.

Io vi guardavo da una quasi nausea,
da tutto quel buio: ricordavo
un’antica infelicità d’infanzia, un’antica
paura.
Ricordavo bene quell’essere fra gli
Altri, spersa, sola.
La mia paura me la ricordavo,
guardando la vostra. Ricordavo bene
il mio sguardo, come se lo avessi
sempre visto da fuori:
sbigottito, quasi non ci credevo
d’essere in questo mondo,
non me lo spiegavo, il mondo,
non mi raccapezzavo.
Come precipitata ero,
dalle altezze caduta molto giù,
molto di lato, nel mondo degli uomini
e delle donne. Nel mondo
delle case di mattoni.
Nel mondo dove si lavora e
Si mangia e si dorme e
Si fa la cacca ogni giorno
E ogni giorno si fa la pipì
Tante di quelle volte e si mangia e
Si dorme e ci si lava la faccia.

Da dentro quello sguardo,
chiusa lì dentro
nella mia fortezza
io guardavo il mondo dei grandi e
provavo una grande pietà.
Io li sentivo che piangevano dentro.
Sentivo che non ce la facevano.
Li sentivo gridare dentro. Con muri
dentro, con scarafaggi e muffe,
dentro.
E un giorno,
quando ero molto piccola,
ho fatto giuramento,
un giuramento infante,
senza le parole, ma chiarissimo
e sonante:
io me li prendo tutti nel petto
e li scampo
li porto in salvo.

Ho giurato così,
senza dire neanche una
di queste parole,
ma con tutte queste parole più forti cento volte.
Nel mio letto, vicino al grande
Armadio con lo specchio,
fra le sponde alte di legno,
con la sorella vicina che tossiva,
giuravo forse ogni notte, per quella
tosse, per la faccia stanca
del mio babbo, e per tutte le facce
dei grandi,
coi loro segni come di grande pena.
Una bambina nel suo letto
ha fatto il giuramento,
recitato la formula che salva,
forse ha vinto sulla morte
e sul mondo.

Aspettavo il giorno in cui mi
avrebbero detto il grande segreto.
Sentivo, lo sapevo, che dietro al loro
non dire niente
si nascondeva la grande verità.
Sentivo, lo sapevo, che loro sapevano
tutto quello che io non sapevo.
Sentivo che un giorno me lo
avrebbero detto
e io avrei capito il mondo
e non avrei sofferto come loro,
perché loro stavano già soffrendo
anche per me. Sentivo e aspettavo.

Poi molto piano, molto in ritardo,
molto piano, millimetro dopo
millimetro,
in un lavoro di tic tac e minuti molto
piccoli, piano piano,
sono passata di là,
sono caduta del tutto nel mondo,
appiattita, schiacciata al suolo
in un lento atterraggio.

Adesso, cari cuccioli, io sono grande.
Sono molto grande.
Sono quello che mai e poi mai
avrei voluto essere:
una persona grande.
Adesso io sono dei loro.
Adesso lontanissima sono
dai miei favolosi sette anni,
quando ero un genio buono,
uscito da poco dalla lampada,
e un filosofo ero, ma senza
le parole, un grandioso poeta
analfabeta, un artista senz’arte.

Adesso da qui, da questo esilio duro,
da questo corpo con peso, da questa
mente complicata,
da questa mente ingombrante,
da qui,
da questo buio che è tutto il mio,
da qui vi guardo, adorandovi.
Vi chiedo aiuto.
Una parte di me vi supplica,
vi implora, vi chiede aiuto e aiuto.
Adesso tocca a voi salvarmi, fare
Il giuramento.
Potrete? Ci riuscirete? Mi sentite?
Sentite?

Dicono che siete rotti.
Siete sazi, dicono. Corrotti.
Rovinati siete, come tutto il resto.
Anche voi nella lista lunga delle
Perdite: l’acqua, l’aria, il silenzio,
il pudore… Anche voi.
Stuprati siete, rotti. Vecchissimi e
Troppo stanchi per l’infanzia. Scarichi.
Vuoti.

Allora adesso imparate.
Imparate l’odore dei nemici potenti.
Sbranate, cuccioli, le loro mani piene.
Scassate le loro tane come galere.
Sputate sui loro piatti, incendiate le
Stanze gonfie di giocattoli,
scappate, morsicate, tirate pietre sui
televisori, scalciate, spaccate questo
micidiale nostro sogno, l’inesauribile
bisogno di confort,
fateci a pezzi, scancellate noi, puniteci
per avere fatto di voi
le nostre miniature
per avervi disinnescati, resi innocui,
per non avervi ascoltati, nel vostro
sommo sapere.

Voi che eravate le porte
del regno dei cieli
e chi non passava da voi non passava
voi che eravate purissima gioia
voi che eravate noi bloccati nella
più grande bellezza
voi che somigliavate ai cuccioli
degli altri animali
voi che capivate lo splendore
misterioso degli animali
voi che dormivate un sonno perfetto
e benedetto
voi che vi svegliavate ridendo
voi che facevate balletti strepitosi.
Voi, nostre divinità domestiche.

Nascete ancora, cuccioli. Restate.
Siate. Salvate. Giurate. Siate. Siate.
Siate.


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Mariangela Gualtieri

giovedì 18 febbraio 2010

HIC ET NUNC



Hic: lo spazio; Nunc: il tempo. Due tappeti volanti, due scale mobili su cui immobile avanzo. E Zenone non mi aiuta.


[Gesualdo Bufalino, Il malpensante,Bompiani, 1987]



«Stranamente, non appena pronunciamo una
cosa, la svalutiamo. Crediamo di essere scesi
nel profondo degli abissi, ma quando risaliamo
alla superficie, la goccia rimasta sulla punta
delle nostre pallide dita non somiglia più al
mare da cui proviene. Crediamo di aver scoperto
una fossa piena di meravigliosi tesori e,
quando ritorniamo alla luce, abbiamo soltanto
pietre false e cocci di vetro; e tuttavia nelle
tenebre il tesoro risplende immutato».


MAETERLINCK


Chi non ricorda l'epigrafe de "I turbamenti del giovane Torless" di Musil ?
Un sogno adolescenziale che riverbera nel presente... Ancora mi illudo delle illusioni...ancora cerco un nome per ogni moto in fondo a un attimo che non so dire...

mercoledì 17 febbraio 2010

CITTA' SENZA NOME...


«Non diamo dunque particolare importanza al nome della città. Come tutte le metropoli era costituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose e di eventi; e, frammezzo, punti di silenzio abissali; da rotaie e da terre vergini, da un gran battito ritmico e dall'eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi; e nell'insieme somigliava a una vescica ribollente posta in un recipiente materiato di case, leggi, regolamenti e tradizioni storiche.»


La città senza nome è Vienna, all'inizio dell' Uomo senza qualità di Musil: paesaggio disorganico e polimorfo di quella realtà postmoderna – raffazzonata, creativa e campata in aria – di cui Musil rimane il più grande interprete. Ma se nel suo romanzo Vienna appare un teatro per eccellenza della tentacolare sconnessione contemporanea, sicché la sua topografia è quasi una Tac della psiche del nuovo uomo «senza qualità», alcuni anni dopo, osserva Claudia Sonino in un acuto saggio, un altro scrittore austriaco, Heimito von Doderer, raffigura Vienna non quale proliferante e anonima metropoli, bensì quale grande ma familiare città di provincia, le cui piazze e vie scandiscono un'esistenza tradizionale e ordinata, basata su rapporti personali, consuetudini di lunga durata, ripetizione quotidiana.

La città è anzitutto lo sguardo che la osserva e l'animo che la vive; anche per questo essa, capitale della storia moderna e del suo sviluppo, è pure una capitale della letteratura; è divenuta non solo uno scenario, bensì una struttura e una forma del romanzo.

[Claudio Magris, Alfabeti, Garzanti, 2008]

domenica 7 febbraio 2010

LA GRANDE ANIMA DELL'INDIA


Articolo scritto e pubblicato da me nel novembre 2009:

Quando pensiamo all’India ci viene subito in mente l’immaginario fiabesco tessuto dagli arditi viaggiatori occidentali appassionati esploratori alla ricerca dell’anima di quel territorio delle meraviglie, impervio e sconfinato, descrittori sapienti di colori e impressioni che nel loro racconto affascinato di fachiri,rubini, maharajà ed elefanti, si mescolano allo stupore davanti ad un universo immobile e al tempo stesso brulicante di umanità, diseguaglianze, splendore e miseria.


A questo fotogramma classico frutto dello stereotipo occidentale, subentra oggi il video in accelerazione delle tentacolari metropoli commerciali e finanziarie in corsa per realizzare il sogno di un miracolo economico che ha trovato motore propulsore nell’armamentario tecnologico, nei palazzi alti della finanza connessa in maniera inscindibile al reticolo globale del Libero Mercato. La globalizzazione non ha risparmiato neppure questo subcontinente che girava lento nella sua orbita di paese più o meno equidistante dai conflitti del secondo dopoguerra, capofila dei paesi non allineati ai tempi della Guerra Fredda. Ma anche per l’India, quell’evento che cambiò la vita a tutti noi cittadini d’occidente, quel muro abbattuto a Berlino nel 1989 che mutò l’assetto geopolitico del mondo spostandone gli assi dal conflitto Est-Ovest alla disparità tra Nord e Sud, quella cortina che non c’è più, ha significato l’ingresso nel grande meccanismo del neoliberismo globale. La “Shining India”, la grande nazione di un miliardo e centomila abitanti, leader mondiale nel software informatico, delle megalopoli pulsanti dentro la frenesia globale dell’accumulo di ricchezza e di capitali è il racconto della postmodernità, la narrazione contemporanea della trasformazione territoriale e antropologica di un paese dalle dimensioni gigantesche ancora ingabbiato tuttavia nella rigidità di un sistema neofeudale di caste e religioni che produce dinamiche feroci. Il paese dei monsoni ha preso quota nel terzo millennio sposando la posticcia sacralità del denaro sempre guadagno di pochi, blindati e ipercorredati di ultramoderna tecnologia, accerchiati da più di 300 milioni di poveri, gli esclusi e i dimenticati dal boom economico che sopravvivono, con meno di 1 euro al giorno, ai margini di questo nuovo impero.


Le sorridenti star di Bollywood producono a ritmi impressionanti un’altra versione contraffatta dell’India, una nuova mitologia materialista e spesso pacchiana, che converte la nazione in moneta sonante da battere e far valere sul tavolo verde del mondo.Il vero volto dell’India, quello narrato anche da Arundhati Roy, scrittrice e giornalista indiana, autrice del bestseller Il Dio delle piccole cose, è ben diverso dall’immagine patinata e supermoderna offerta a noi occidentali. Nel cuore dell’impero economico che vanta un Pil dell’ 8% all’anno dal 2004, si avverte lo stridore raggelante della diseguaglianza, la miseria nera degli slums delle megalopoli, la gabbia della povertà senza redenzione nei villaggi. Moltissime le piaghe sociali davanti alle quali ci si sente impotenti: la dilagante corruzione politica e degli apparati dello stato, l’analfabetismo, le tensioni etnico-religiose, il numero impressionante di suicidi tra i contadini stritolati dall’usura e dagli espropri, la guerriglia maoista, il terrorismo di matrice islamica. I movimenti popolari nascono nei villaggi dove la miseria è rimasta miseria, sorgono sospinti dalla necessità di coniugare modernità e progresso con un passato complesso, una storia di sudditanza e riscatto dalla Raj britannica, di orgogliosa indipendenza e grande difficoltà a tenere insieme i pezzi di quella che è oggi considerata “la più grande democrazia del mondo”. Per questo l’India è laboratorio per tutte le moderne democrazie, con la sua contorta molteplicità è fondata sul principio dello Stato laico e di diritto, sul pluralismo politico e religioso che dovrebbe tenere insieme 28 stati e sette regioni autonome, 23 lingue ufficiali e centinaia di altre lingue, sette importanti religioni e numerose religioni minori, un mosaico di circa 800 gruppi etnici diversi. Molte le pagine buie di questo cammino tormentato con un lungo elenco di scontri tra caste, impuniti massacri di matrice religiosa, settarismo indù e fame e denutrizione a livelli simili a quelli africani.I movimenti non partitici, come quello dell’attivista Aruna Roy nel Rajasthan, il Mkss, raccolgono molta dell’eredità di Mahatma Gandhi, la lezione di una democrazia “inclusiva”, che comprende il villaggio più remoto, l’ultimo uomo da raggiungere e coinvolgere nel processo di crescita democratica, che muove da una richiesta assoluta di trasparenza e diritto all’informazione nella gestione della cosa pubblica. Le elezioni del maggio 2009 hanno premiato di nuovo il partito del Congresso dominato dai Nehru-Ghandi, la dinastia designata dal Mahatma che ha segnato la storia della nazione con il suo socialismo riformista. L’ultimo rampollo, Rhaul Ghandi sostenuto dalla madre Sonia, incarna oggi il “rinnovamento” sigillato dalla presenza alla guida del Parlamento di una dalit, una “intoccabile”, una donna proveniente dal ceto più basso dei fuoricasta. Ci sarà molto da fare per il neogoverno repubblicano per saldare l’identità “masala” di un popolo e il suo diritto alla dignità. Nel museo di Gandhi a Delhi, si può leggere, inciso nel marmo il talismano che egli donò a Nehru, il suo lascito a tutti i futuri governanti della nazione: “quando avrai dei dubbi, fai questa prova: ricorda il volto dell’uomo più povero e più debole che tu abbia mai visto e chiediti se il passo che stai per fare lo aiuterà, se gli restituirà il controllo della sua vita e del suo destino”.


Sotto il cielo dell’India continuerà la scommessa per la democrazia, tra arcaismo e modernità, ma nessun miracolo economico sarà reale se non porterà con sé l’idea di equità sociale, se non includerà uomini e donne con la loro dignità e i loro diritti inviolabili, frontiere non negoziabili di ogni società che desideri sopravvivere senza smarrire la propria anima.

Angela Poli alias polange