domenica 21 novembre 2010

CIASCUNO CRESCE SOLO SE SOGNATO


Sognare gli altri e sognarci come non siamo. Per andare oltre, per segnare il cammino. Rimettersi in marcia. Uscire dalla condizione antropologica di sviluppo senza progresso. Di saturazione economica senza coscienza e conoscenza. Transitare dalla iperdose di informazioni al poco della comprensione. Perché per capire bisogna andare al nocciolo, sfrondare ogni cosa fino al poco, fino al nulla. E di lì ricominciare.

polange


C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.


C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.


C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.


Danilo Dolci

QUESTIONE DI PAROLE


È solo una questione di parole, ma noi tutti sappiamo che le parole sono importanti.
- Perché le parole sono importanti?
- Se non sapete dire quello che pensate, Vostra Maestà, non riuscirete mai a sapere quel lo che dite.


L’ultimo imperatore , Bernardo Bertolucci

mercoledì 17 novembre 2010

LA RABBIA DEI BAMBINI


"Gli abbiamo detto che la rabbia non è bene
Bisogna vincerla, bisogna fare pace
Ma che essere cattivi poi conviene
Più si grida, più si offende e più si piace

Gli abbiamo detto che bisogna andare a scuola
E che la scuola com’è non serve a niente
Gli abbiamo detto che la legge è una sola
Ma che le scappatoie sono tante
Gli abbiamo detto che tutto è intorno a loro
La vita è adesso, basta allungar la mano
Gli abbiamo detto che non c’è più lavoro
E quella mano la allungheranno invano

Gli abbiamo detto che se hai un capo griffato
Puoi baciare maschi e femmine a piacere
Gli abbiamo detto che se non sei sposato
Ci son diritti di cui non puoi godere
Gli abbiamo detto che l’aria è avvelenata
Perché tutti vanno in macchina al lavoro
Ma che la società sarà salvata
Se compreranno macchine anche loro

Gli abbiamo detto tutto, hanno capito tutto
Che il nostro mondo è splendido
Che il loro mondo è brutto
Bene: non c’è bisogno di indovini
Per sapere che arriverà il futuro

Speriamo che la rabbia dei bambini
Non ci presenti un conto troppo duro.”

Bruno Togliolini : Rime di rabbia, Salani, 2010

domenica 15 agosto 2010

CORRENTE


Quanto guardare senza vedere...troppo movimento produce assenza di visione, secerne desiderio di futuro e compressione dei tempi per dimenticare il tempo. Per correre velocemente bisogna sbarazzarsi di pesi e contrappesi, una libertà fittizia che oscura le stelle e spegne il mondo intorno. Meglio fermarsi, ricordare, riconoscere, vedere, sognare, forse anche immaginare...riconquistare il tempo, i tempi, lo spazio del progettare e del divenire.
polange
CORRENTE
Chi cammina
s'intorbida.

L'acqua corrente
non vede le stelle.

Chi cammina
dimentica.
E chi si ferma
sogna

Federico Garcia Lorca



giovedì 29 luglio 2010

DAYDREAM

Sogno ad occhi aperti... I sogni vanno condivisi , le tele tessute, nella linea verticale che unisce chi trova senso e spazio nell'atto della levitazione, cercando il punto più prossimo all'indicibile.

polange


Giovanni Sollima - Sogno ad Occhi Aperti (Daydream) PART 1


sabato 24 luglio 2010

DINIEGO



"...consiste ne negare, nelle forme più svariate e ipocrite, l'esistenza di ciò che esiste e per giunta si conosce."


Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, 2003


Credo che non vi sia altro "vizio" non capitale ma collettivo, secondo la classificazione di Umberto Galimberti, più deleterio e codino di questo. Di origine freudiana, come quasi tutto il secolo che sa di non sapere tutta la verità su se stesso, questo male si dilata col dilatarsi dei megafoni della comunicazione, diventa un blob incandescente che annebbia la mente, per cui non vediamo più quello che vediamo ma solo quello che vogliamo vedere. Per Freud, infatti, era l'anticamera della pazzia.

Non è la rimozione, non è la negazione, il diniego, Verleugnung, è negare che le cose siano come sono e come si sa che sono. Dalla questione palestinese fino alle faccende di casa nostra, c'è di che trovare esempi di questa immoralità collettiva che scarica altrove la scienza e la coscienza dell'accadere.

polange

ADIRARSI



"Adirarsi è facile , ne sono tutti capaci, ma non è assolutamente facile, e soprattutto non è da tutti adirarsi con la persona giusta, nella misura giusta, nel modo giusto, nel momento giusto e per la giusta causa."


Aristotele, Etica a Nicomaco

venerdì 23 luglio 2010

silenzi

"La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi."

Pier Paolo Pasolini

Alla mia nazione


Alla mia nazione

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!


Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.

E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.

Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

Pier Paolo Pasolini









Pasolini: "Alla mia nazione" from IdeeperCordenons.tv on Vimeo.

mercoledì 21 luglio 2010


Viandante, sono le tue impronte
il cammino e nulla più;
Viandante non c'è un cammino
la via si fa con l'andare..."

Camminando si fa il cammino
e girando indietro lo sguardo
si vede il sentiero che mai
si deve tornare a calpestare.

Viandante non c'è un cammino
ma le stelle nel mare ...
Antonio Machado

NULLA E' IN REGALO


Nulla è in regalo,tutto è in prestito.
Sono indebitata fino al collo,sarò costretta a pagare per me con me stessa,a rendere la vita in cambio della vita.
E' così che è stabilito,il cuore va reso e il fegato va reso e ogni singolo dito.
E' troppo tardi per impugnare il contratto.
Quanto devo mi sarà tolto con la pelle.
Me ne vado per il mondo tra una folla di altri debitori.
Su alcuni grava l'obbligo di pagare le ali.
Altri dovranno,per amore o per forza,rendere conto delle foglie.
Nella colonna ''dare'' ogni tessuto che è in noi.
Non un ciglio,non un peduncolo da conservare per sempre.
L'inventario è preciso,e a quanto pare ci toccherà restare con niente.
Non riesco a ricordare dove,quando e perchè ho permesso che aprissero questo conto a mio nome.
La protesta contro di esso noi la chiamiamo anima.
E questa è l'unica voce che manchi nell'inventario...

Wislawa Szymborska

I PERSONAGGI DI BUFALINO


Torno su Gesualdo Bufalino e i suoi personaggi di romanzo. Oltre alle memorabili decrizioni dei personaggi di Dovstoevskj , i ritratti megli riusciti mi sembrano quelli di Emma Bovary, l’uomo del sottosuolo, Anna Karenina ,Padron ‘Ntoni e Auguste Dupin. Epitaffi sontuosamente e nostalgicamente barocchi di vite che ci somigliano.
Emma Bovary
Schiacciata, come si schiacciano due battenti, fra la platea brutale di tutti gli Homais della terra e le quinte dipinte e pesanti dei suoi fantasmi di biblioteca, la povera infedele di provincia recita fino alla morte inscena, con arsenico vero, il suo assolo di primadonna. Incarnazione di non so quante creature illuse da una nuvola o da una parola; alter ego dello stesso autore, di cui accusa, dietro il falso marmo della sintassi, gli ardori nascosti e l’invincibile credulità nelle maschere della passione.

L’uomo del sottosuolo
Persa ogni speranza di palingenesi universale, barattato Fourier con Stirner, un uomo s’ammutina contro la società e la storia, sceglie di murarsi vivo nella propria tenebra, di cibarsi solo delle immondizie del proprio io. Da allora la sua esistenza sarà quella del sotterrato, la sua voce un lamento in falsetto, una confessione abietta, dove dileggio e pietà di sé, biffonaggine e disperazione s’impastano. Nella tana che gli è ventre e , pietosamenteveramente un insetto., uno di quei vermi come se ne vedono se si rivolta una pietra. Ci riuscirà più tardi a Praga una mattina, svegliandosi, e si chiamerà Gregorio Samsa.

Anna Karenina
L’adulterio nella meteorologia amoriosa dell’Ottocento è non di rado un’acquata di priomavera. Per Anna Karenina è l’alluvione che spacca la diga. Da quando Vronskij le apparve, nel suo fatuo splendore di denti e spalline, non esistono più per lei, benchè un po’ insista a rispettarli, né l’alfabeto mondano né il codice dei valori morali. Finirà sotto le ruote di un treno, pietosamente, chiudendo tra una banchina e l’altra di una stazione il curricolo nero della sua deroga. E’ una vendetta del cielo? E Anna la meritava? O non la meritava piuttosto il mondo che la spinse alla morte? Per bocca di san paolo l’epigrafe del conte Tolstoj ambiguamente risponde: “La vendetta è mia; io ti ripagherò”.

Padron ‘Ntoni
Amico mare, amaro mare: truvatura e banca sempre aperta di pesci che diventano onze e tarì; ma pesce, esso stesso, tutto bocca e denti, che si mangia senza differenza le paranze dei poveri e le corazzate dei re. E si piglia sudore e sangue, si piglia i figli. E, quando non ammazza, invecchia: storpia le mani, secca la pelle, storce le ossa. Così per tanti, così per padron ‘Ntoni. Ma del suo crescere lento in statua, in un’aria di domestico epos; del suo sopravvivere, come durano, anche fulminate, le querce; della sua indomita fanciullezza di cuore, quando guarda come un cefalo guizzare nuova nuova la “Provvidenza” sulle onde, ci ricorderemo.

Auguste Dupin
Mesmeriche Ligeie , cavalli a galoppo nella tempesta, specchi abitati da ombre, Morti Rosse e Pesti truccate da re…Ma l’iconografia gotica, più che un’eredità di spaventi scolastici è in Poe il suo stesso cardiogramma, mentre soccombe al mal di mare dell’invisibile. Lui che pretendeva di mettere le briglie al caos, di costruire una poesia come si costruisce, con regolo e filo a piombo, una casa…E allora si veste da Auguste Dupin, e con l’aiuto dell’ultimo pezzetto di cervello che l’alcool gli ha risparmiato, traccia su una lavagna la grande superstite sezione aurea di una verità di ragione.

DOBBIAMO RIFARE NOI STESSI



(Robert Delaunay, Fenetres Ouvertes Simultanement, 1912 o/c)


E’ da molto tempo che desidero postare questo brano. Credo sia giunto il momento.
Giacomo Ulivi, 19 anni nel 1944, studente all’università di Parma, facoltà di legge. E’ staffetta tra il Cnl di Parma e di Carrara e gli inglesi. Viene catturato , fugge per ben due volte ma la terza gli è fatale; a Modena le Brigate Nere lo imprigionano e lo torturano. La mattina del 10 novembre verrà fucilato sulla piazza Grande di Modena insieme ad altri due partigiani. Questa è la lettera che riuscì a far giungere agli amici prima dell’arresto:

Cari amici,
vi vorrei confessare innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L’avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire "falso", di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un’offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi.


Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami il flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano.

Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi.
Fondamentale quello della "sporcizia" della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di "specialisti". Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell’opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – ci siamo stati scaraventati dagli eventi.

Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica – il che vuol dire a sé stessi – senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente, ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.

Questa ci ha depredato, buttato in un’avventura senza fine; e questo è il lato più "roseo", io credo: Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi. Credetemi, la "cosa pubblica" è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come "patriottismo" o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L’egoismo – ci dispiace sentire questa parola - è come una doccia fredda, vero?

Sempre tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di rettorica. Facciamoci forza, impariamo a sentire l’amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell’ombra si dilati indisturbato. E’ meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L’egoismo, dicevamo, l’interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l’ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della "cosa pubblica", insomma, finiscono per coincidere. Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!
Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi? Quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere? Che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo. Bisognerà fare molto. Provate a chiedevi in giorno, quale stato, per l’idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi. Se credete nella libertà democratica, in cui, nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettare una nuova concezione, più egualitaria della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.
Oggi bisogna combattere contro l’oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.
Termino questa lunga lettera un po’ confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.

( Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, Einaudi, Torino, 1952)



I PERSONAGGI DI ROMANZO


In Dizionario dei personaggi di romanzo, Bufalino si diverte a ritrarre con la sua prosa mirabile e barocca i destini delle creature di carta che tutti conosciamo, da Don Chisciotte all’Innomable di Beckett, e giustifica così in una indimenticabile e ironica introduzione la sua scelta apparentemente bovina alla Bouvard e Pecuchet:


“ Come ogni appassionato di squartamenti – tigre ircana o critico strutturalista – il compilatore di antologie è individuo nocivo, da fidarsene poco. Di lingua subdola, di mano spiccia, di smisurata superbia, egli meriterebbe il bando dalle pubbliche biblioteche, se la sua oepra non si rivelasse provvidenziale nelle emergenze di apocalisse prossima ventura, quando non ci vuol meno dei suoi coltelli da cuciniere per fornire ai clienti delle catacombe il Libro dei Libri, surrogatorio d’ogni altro, tascabile lingotto di lacerti pressati, da nascondere in fretta nella valigia, fra una borraccia e il rasoio, subito dopo lo quillo della prima tromba del cherubino. Siamo tanto? E’ probabile, i roghi di Fahrenheit 451 li abbiamo già visti divampare per prova sulla pagina e sullo schermo; e in quanto al calendario 1984, credo che il proto abbia cominciato da tempo a licenziare le bozze. Ahimè, a quel che sembra, i poeti sballano solo le profezie più ottimistiche, mentre non falliscono mai né un diluvio né una caduta di Troia. Sicchè a questo punto prudenza vuole che ognuno si nomini da solo Deucalione e Noè, e metta mano a salvare almeno un compendio dello scibile che più gli preme. Del romanzo, in particolare, i simulacri dei personaggi più memorandi, così come ci vengono incontro sulla soglia, mentre provano i gesti dellìesordio e fanno amicizia col lettore, col caldo della vita, con la voce che li battezza. Un arbitrio, lo sappiamo (ma eluderlo sarebbe più difficile che condannarlo); un arbitrio e un azzardo: sottoposti a una chirurgia tanto efferata, estirpati dal traliccio di vicende che li sorregge e li nutre, umiliati in un’arida fila indiana, cronologica e alfabetica, è inevitabile ch’essi finiscano col comporre un album di sinopie burocratiche e utilitarie; qualcosa come un casellario giudiziario o una vetrina di farfalle, ciascuna col suo spillino nell’addome imbalsamato; se non addirittura uno di quei campioni di veneri venali che si esibiscono in visione ai commendatori in trasferta…Toccherà infine al lettore, se Dio vuole, giustificare manomissioni così disinvolte , quando sappia giovarsene a ricomporre, non diversamente da un fossile o da un calco pompeiano, le fattezze della figura originaria; e a cucirsi con le singole pezze un solo grande romanzo-arlecchino, un film-monstre dall’ineguagliavile cast.
[…] Ci troviamo un tal caso alla presenza di quelli che si è convenuto di chiamare “eroi culturali”, archetipi solenni e stazioni carovaniere, poste a scandire lungo le piste del tempo la musica senza fine dell’uomo. Lord Jim, Crotcaia, Tartarino, Ukiko Makioka…così rispondono, se a caso li chiamiamo per nome, gli abitanti di questo territorio invisibile: la nostra patria più vera. Averli messi in fila qui di seguito come parole di un simultaneo discorso, avrà giovato almeno a sancire la loro obbligatoria complicità e interazione reciproca. Quasi fossero l’anagrafe di una sola mitopea gigantesca, scritta da una sola innumerevole mano, e fra loro si amassero, colluttassero, grandando chiedessero a tutti i costi di vivere e di somigliarci.” (G. Bufalino)

LE COSMOGONIE DI GESUALDO BUFALINO



Gesualdo Bufalino, lo scrittore siciliano che disse di sé:
"Una vita come tante, due tre malattie intere, due tre mezzi amici, un umor malinconico con vampate d’ilarità; un cristianesimo ateo e tremante, inetto a capire se l’universo sia salute o metastasi, grazia o disgrazia; un odio della storia: lastrico di fossili ideologici, collana inerte di errori; un trasporto per ciò che dura e resiste - luoghi, solidali gerghi, abitudini oneste, strette di mano - nel fondo della mia provincia sperduta. In letteratura un amor di menzogna e di musica, purchè radicate nel punto favoloso e geometrico del dolore e della memoria. Cose che ho amato o amo: il blues, Verdi e Mozart, il cinema muto, le stampe (belle o brutte) del seicento, Proust e Leopardi, gli epistolari, una canzone francese, che so io, i problemi scacchi ... Dimenticavo: "Le clair de lune quand le, clocher sonnait douze", nelle notti d’oscuramento, quarant’anni fa. P.S. Il libro per la solita isola? Un vocabolario".

Con i suoi libri riaffiora uno scampolo di mondo che da adolescente respiravo e che ora non c’è più se non in me, nella memoria che resiste e si contamina di presente. Ma forse così deve essere. Es Muss sein. Bufalino scriveva con il suo solito tono da voyant che «forse è veramente cominciato il tracollo dell'umanesimo che amammo, forse si tratta solo d'una pausa prima d'un nuovo imprevedibile balzo. Nessuno può escludere che in questo stesso momento, in un asilo infantile di non so dove, un nuovo Dante, un nuovo Shakespeare stia con piccole dita incerte scarabocchiando su un foglio bianco le prime sillabe di un nuovo, inaudito alfabeto...»
(Essere o riessere)

E’ stato lo scrittore forse involontario della “sicilitudine” come disse Sciascia, non di una sola isola ma della pluralità delle Sicilie anche se proveniva dalla Sicilia “babba”:

"… le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava.
Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come il copione di carnevale … "

LA FORTEZZA BASTIANI


Resisterà alle dolci lusinghe la Fortezza Bastiani?
Bugiardi imbonitori l'assediano
con violenze degne di Tamerlano
Resisterò andando incontro al piacere
ascoltando il respiro trattenendo il calore
su un'altra forma d'onda intonerò il mio pensiero
Ho camminato girando a vuoto
senza nessuna direzione
mi tiene immobile nei limiti
l'ossessione dell'Io

Mi ritrovai seduto su una panchina
al sole di febbraio
un magico pomeriggio dai riflessi d'oro
e mi svegliai con l'aria di pioggia recente
che aveva lasciato frammenti di gioia

Franco Battiato




mercoledì 30 giugno 2010

IMPARARE A NUOTARE

A poco serve restare a riva come quei cormorani impediti nel volo dal catrame, risultato drammatico dell'agire scriteriato di chi non ha che denaro per misurare la vita sulla terra, il valore indifferente di ogni oggetto e di ogni umano intorno. L'Italia degli ultimi anni somiglia a quei volatili ai quali è stato sottratto il cielo e consegnati ad un goffo passo sulla terra,impeciati,rattrappiti e spaventati.
polange


«Per vent’anni abbiamo vissuto sotto l’ala di un turbine: globalizzazione economica e trasformazione politica. Due metamorfosi insieme: post-industriale e post-democristiana. L’Italia di oggi ci restituisce per mille segni l’immagine di un Paese provato, che perde colpi di continuo. E soprattutto con un motore politico penosamente inadeguato, incapace di autentica innovazione, che non fa nulla se non pasticciando, e alla fine non sembra concepire altra missione tranne la pura conservazione di se stesso e del ceto che lo controlla. Ma altre volte siamo stati capaci di riagguantare all’ultimo istante il filo della nostra storia. La posta in gioco è troppo importante per rassegnarsi, e dopotutto siamo qualcosa di più di un piccolo angolo di mondo.»

Aldo Schiavone (da L'Italia contesa, 2009)


Forse, bisognerebbe acuire la vista e scorgere uno spiraglio, sperare una speranza,immaginare un inizio, riempire gli interstizi di senso e di agire, riconquistare le passioni, blandire il futuro con parole nuove non solo di sdegno ma anche di deciso, fiero riscatto... dentro il disastro dell'etica, del pensiero e del tessuto civile, costruire un racconto differente, una Storia che illumini.
polange

"Nel cuore del Paese si sta aprendo un enorme spazio vuoto – non soltanto di politica, ma di pensiero e di autoidentificazione civile. Bisogna tuffarcisi dentro e nuotare. Nuotare molto."

Aldo Schiavone (da L'Italia contesa, 2009)

CHI SCOMMETTE SUL FUTURO DELL'EUROPA?


È cominciata con la crisi in Grecia, poi il maxi-scudo da 750mila euro contro la speculazione in Borsa, poi le giornate nere con gli attacchi ripetuti alle piazze di Milano e Madrid e poi ancora le riforme e il “regime controllato” dei conti pubblici degli stati nazionali. Cosa sta accadendo all’Europa? È colpa di qualche ditino incauto sui terminali di Wall Street? Colpa delle invise agenzie di rating oppure di un complotto del mercato speculativo ai danni delle moneta unica europea? Sul terreno tutto virtuale della finanza globale sembra essersi mossa l’offensiva all’economia reale degli “stati sovrani” europei nel tentativo di far saltare il banco. Questa volta si gioca con gli hedge funds congegnati per scommettere in maniera scellerata sul collasso debitorio dell’eurozona. Che la Grecia fosse solo la punta dell’iceberg lo si era capito dal fatto che dopo il via libera agli aiuti le Borse avevano continuato la loro pericolosa discesa e le divisioni mostrate all’interno degli stati membri, comprese le esitazioni un po’ spocchiose della Germania, davano la conferma di quanto percepito nei santuari della finanza: la debolezza politica dell’Unione Europea.
Il difetto genetico dell’Unione Europea risiede nella sua costruzione che ha prodotto una moneta, l’euro, senza stato e senza governo. Maastricht con la sua clausola di esclusione si è rivelato una gabbia e il patto di stabilità nient’altro che una serie di indicazioni senza nessuna vera autorità di sorveglianza. Nella società mondiale del rischio, in cui ogni paese è connesso, non esistono élite che si salvino, tra l’altro, gettando a mare la zavorra, come la Germania aveva pensato di fare nel caso greco. Il Vecchio continente si mostra così impigliato in altre logiche rispetto a quel progetto democratico visionario che i padri dell’Europa avevano sostenuto e in parte realizzato.
Dal manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli fino al venerdì nero delle borse sembra concludersi una stagione iniziata con il sogno di un’area comune ispirata agli alti valori democratici e finita nell’euroscetticismo di “piccole patrie” dominate da grandi egoismi. L’impasse di una unione di stati nazionali potrebbe trovare soluzione soltanto in un ritrovato progetto unitario, una sfida della quale parla Joschka Fischer, il ministro degli Esteri tedesco quando rilancia l’idea dello Stato Europa, una entità geopolitica in grado di sbaragliare le disuguaglianze e le discriminazioni in un disegno condiviso che coinvolga i cittadini e la politica, non incagliato nelle secche dei mercati o dei burocrati di palazzo. Insomma, la paura del tracollo sembra spingere l’Europa verso quel grande e antico sogno di un reale “governo” della moneta unica. Solo così il cammino inceppato dell’Unione troverebbe la sua ripresa. Bisognerebbe che gli stati nazionali cedessero le loro fette di potere e che si impegnassero a colmare le disomogeneità politiche, economiche e culturali nell’eurozona, lanciando strategie di azione ispirate alla cooperazione piuttosto che al mero particulare. Le misure draconiane in campo finanziario chieste ai paesi membri meno virtuosi non apparirebbero così una punizione inflitta dagli stati “virtuosi” e operosi. Anche il padre dell’Europa Jacques Delors considera la mancanza di cooperazione il vero tallone d’Achille dell’Europa. Infatti, il clima attuale è per tutti al limite dell’eurofobia: i britannici disincantati, i tedeschi e i francesi praticamente alle corde mentre ovunque trionfano piccoli nazionalismi ed antichi pregiudizi. Nella storia dell’Unione, dalla gestazione dell’euro fino alla crisi incombente ha pesato sempre il fattore etnico, la differenza antropologica e culturale tra gli stati “virtuosi” e gli stati lassisti (i “Piigs”), per cui da una parte i nordici con il loro rigore e dall’altra greci, portoghesi, spagnoli, italiani fraudolenti per vocazione, geneticamente approntati all’approssimazione. Finché questi pregiudizi e stereotipi troveranno terreno fertile, sorretti da un’opinione pubblica foraggiata da leader politici miopi che cavalcano la paura e l’egoismo, nulla di condiviso e di veramente duraturo potrà aver luogo in Europa. Il laboratorio Europa va rimesso in moto e presto perché gli stati membri sanno bene che, come recita il Manifesto di Ventotene: “la via da percorrere non è facile né sicura – ma deve essere percorsa e lo sarà".

Angela Poli

martedì 18 maggio 2010

Un pezzo di poesia viva che se ne va...




Un saluto a Edoardo Sanguineti, poeta dell'avanguardia e del canto anarchico disancorato dalla sterilità del consolidato...a questo viaggiatore temerario del mare aperto auguriamo un buon tragitto nell'al di là...



"... se oggi dovessi dire, in breve, quale sia la pulsione profonda da cui è nata tutta la moderna poesia, direi che tale pulsione è quella dell'anarchia. E' questo impulso che mi ha fatto scrivere, una volta, a conclusione di una poesia del 1976, come proposta di autoepitaffio: "Non ho creduto in niente". E il problema di un poeta, oggi, rimane sempre per me, come per i suoi lettori del resto, quello di trasformare l'impulso alla rivolta in una proposta di rivoluzione, e fare della propria miscredenza un progetto praticabile". Edoardo Sanguineti





Tra le molte poesie che amo di questo poeta dell'avventura e della sperimentazione ce n'è una, piuttosto nota, che ne denota la straodinaria sensibilità, lo spirito visionario e la capacità di essere sempre "uber",in avanti, in una prospettiva che si inchina con passione alle poche, ahimè, neglette verità del creato.



La ballata delle donne di Edoardo Sanguineti

Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.

Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.

Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.

Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.

Femmina penso, se penso l’umano
la mia compagna, ti prendo per mano.

da “Il gatto lupesco (poesie 1982-2001)”

giovedì 6 maggio 2010

PICCOLE TAUTOLOGIE


perchè oggi è oggi...because today is today. Piccole tautologie alla Gertrude Stein, gatti che si mordono la coda, serpenti che camminano in circolo, ritorni e partenze, il motto ben noto di Maria Stuarda "in the end is my beginning"...oh, "fear no more the heat of the sun" , non temere i raggi del sole declama l'attore shakespeariano in ogni angolo del mondo. Noi, stamattina, leggiamo W.B. Yeats, because today is today...

Feci al mio canto un mantello
Coperto coi ricami delle antiche
Mitologie, dai piedi fino al collo;
Ma gli sciocchi
Lo presero per loro, lo indossarono
Davanti agli occhi del mondo
Quasi che loro l'avessero cucito.

Canzone, lascia pure
Che se lo tengano, perché
Ci vuole più coraggio a camminare nudi.


I MADE my song a coat
Covered with embroideries
Out of old mythologies
From heel to throat;
But the fools caught it,
Wore it in the world’s eyes
As though they’d wrought it.
Song, let them take it
For there’s more enterprise
In walking naked.

William Butler Yeats, 1914

lunedì 3 maggio 2010

LE NOSTRE ISOLE





Tanto tempo fa ormai. Niente più che un’uscita dall’isola del Mito e un ingresso nell’isola della Storia.
A volte, è bello ricordare il Mito e continuare a camminare dentro la Storia.
Ci sono fili che non si spezzano mai. Nessun abbandono è mai definitivo.


Quella, che tu credevi un piccolo punto della terra,
fu tutto.
E non sarà mai rubato quest'unico tesoro
ai tuoi gelosi occhi dormienti.
Il tuo primo amore non sarà mai violato.

Virginea s' è rinchiusa nella notte
come una zingarella nel suo scialle nero.

Stella sospesa nel cielo boreale
eterna: non la tocca nessuna insidia.

Giovinetti amici, più belli d'Alessandro e d'Eurialo,
per sempre belli, difendono il sonno del mio ragazzo.
L'insegna paurosa non varcherà mai la soglia
di quella isoletta celeste.

E tu non saprai la legge
ch'io, come tanti, imparo,
- e a me ha spezzato il cuore:

fuori del limbo non v' è eliso.

E. MORANTE, L 'Isola di Arturo, Dedica, 1957

GERMINAZIONI CREATIVE


Alberto Savinio è una delle menti più curiose ed eccentriche che abbiano riempito la mia adolescenza, quando ci si ammala si ritorna un po’ alle radici, si cerca un approdo solido, compatto, ed eccomi tornata a sfogliare i suoi scritti dispersi tra guerra e dopoguerra nell’edizione introdotta da Leonardo Sciascia. Un classico Bompiani comperato da una bancarella di Via Po a Torino quando a vent’anni, il primo stipendio da supplente sembrava permettermi il lusso di questo ambito acquisto. Nel suo articolo “letture da infermi” appunto, egli obietta al riposo del corpo e della mente prescritto dal medico: “quale miglior riposo della mente del fermare il nostro pensiero, e blandamente seguire sulla pagina scritta il pensiero altrui?” E quindi descrive con arguzia i libri che ha letto e di quelli che ha riletto : una biografia di Bach di Alfredo Casella, Sull’intensità degli stati psicologici di Bergson, le Passeggiate italiane, Roma e dintorni di Ferdinando Gregorovius.
“Quando l’organismo funziona bene, in altre parole quando non lo sentiamo funzionare, sentimenti e pensieri sgorgano, e nulla ci segnala “come” sgorgano. Ma quando l’organismo non funziona bene (e questo era il caso mio) petto, spalle, braccia, collo, tempie segnalano dolorosamente lo sgorgare di sentimenti e pensieri; e l’intensificarsi di un sentimento, l’approfondirsi di un pensiero. Che misurazione precisa! J’ai mal à l’ame si diceva una volta. Ma qui si tratta di ben altra cosa.”

Ho letto Savinio e riletto Vite di Corsa di Zygmunt Baumann, I Funamboli di Giorgio Melchiori con l’analisi del celebre passo joyciano sull’incubo della storia.: Stephen Dedalus nel secondo capitolo dell’Ulysses ha il compito di tenere una lezione di storia su Racconti sulla Grecia e su Roma di Peter Parley :

“Lei, Cochrane, che città lo mandò a chiamare?”
“Taranto, professore”.
“Benissimo, e allora?”
“C’è stata una battaglia professore”
“Benissimo, dove?”
La faccia vuota del ragazzo interrogò la finestra vuota.

Il senso della Storia di Joyce esule nel cuore dell’Europa, non più cronaca ma distruzione delle dimensioni storiche, del tempo e dello spazio, emerge dal monologo di Stephen ma anche dall’argomento stesso della sua lezione di storia, cioè Pirro con la sua ben nota affermazione “un’altra vittoria come questa e siamo spacciati”.

Altra lettura per me: il libro degli esseri immaginari di Borges, libro non scritto per una lettura consecutiva, quindi adatto ad una fastidiosa malattia. “Vorremmo che i curiosi lo frequentassero, come chi gioca con le forme mutevoli rivelate da un caleidoscopio” scrive l’autore nella prefazione. Ho riletto di Abtu e Anet , i due pesci identici e sacri della mitologia egizia che nuotano davanti alla nave di Ra, dio del sole, per prevenirlo contro qualsiasi pericolo. Di giorno la nave viaggia nei cieli, da oriente ad occidente; di notte, sotto terra, in direzione inversa. Chissà se ognuno di noi è preceduto da questa coppia divina e tutelare. Io ne ho due di sicuro.

E Savinio infine, mente duttile e profonda, erudito del sentire e del pensare come facoltà “nobili” , a suo avviso “del tutto separate dall’organismo”. Finisce così il suo articolo scritto sul Corriere dell’informazione il 27-28 novembre del 1950

“Altra lettura: Germania di Enrico Heine. Più di quarant’anni che non riprendevo in mano questo libretto. Alle prime parole la musica echeggiò, il mare brillò. La riprova che in un autore c’è germinazione creativa è che la sua germinazione creativa, si trasfonde in noi.

Dimenticai la malattia, uscii dal letto.”

Non sono del tutto guarita, ma la germinazione creativa delle mie letture caleidoscopiche in qualche modo ha operato in positivo.



polange

I MODELLI , LA RIVOLTA E L’ABBANDONO





Pensavo: tra la libertà e la costrizione vi è un passaggio stretto che porta alla rivolta lucida e definitiva come quella di uno strappo dovuto a chi ci ha segnato, guidato e offerto dei modelli. La condizione dell’essere che si affranca dai modelli per divenire se stesso è al tempo stesso una libertà e un abbandono.
L’essere che resta dentro i gangli dell’autorità e dei modelli, mentali, culturali, filosofici e politici è destinato alla necrosi, all’immobilismo che non disegna forme di vitalità scorrevoli né inventa mondi e possibilità di esistenze. Nel pubblico e nel privato, scegliersi ha sempre un prezzo, è una libertà che libera e che imprigiona nelle maglie di un “io” che si offre alla navigazione a mare aperto, alla solitudine e all’abbandono, alla ricerca di nuove isole, di altre esperienze fuori dall’egida asfittica del totalitarismo ammorbante dei modelli.

Nelle Mosche di Sartre il dialogo tra Oreste e Giove è quello di un essere che vuole essere se stesso e un Dio che intrappola e non comprende come mai si possa non ubbidire alle sue leggi, alla sua persona. Oreste non cede se stesso e la sua libertà in cambio di un po’ di sicurezza. Ne avrà guadagnato la vita.

Oreste: Straniero a me stesso, lo so. Fuori della natura, contro la natura. Senza scusa, senza’altro senza rifugio che in me. Ma non ritornerò sotto la tua legge: io sono condannato a non avere altra legge che la mia. Non ritornerò alla tua natura: mille strade conducono a te, ma io non posso seguire che la mia. Perché sono un uomo, Giove, e ogni uomo deve inventare la propria strada. La natura ha orrore dell’uomo, e anche tu, tu, sovrano degli dei, hai orrore degli uomini.

Giove: E’ vero. Quando gli uomini sono simili a te, io li odio.

Oreste: Sta’ attento: hai confessato la tua debolezza. Io non ti odio. Che abbiamo in comune, tu e io? Passeremo uno accanto all’altro senza toccarci, come due navi.Tu sei un Dio, io un uomo libero: egualmente soli ed eguale è la nostra angoscia. Chi ti dice che io non abbia cercato il rimorso durante questa lunga notte? Il rimorso. Il sonno. Ma io non posso pià aver rimorso. Né dormire. (una pausa)

Giove: Che conti fare?

Oreste: Gli uomini d’Argo sono i miei uomini. Devo aprire gli occhi a costoro.

Giove: Povera gente! Stai per donare a questi tuoi uomini solitudine e vergogna, per strappare il panno con cui io li avevo ricoperti e mostrargli d’un tratto la loro esistenza, la loro oscena e sciocca esistenza, che hanno avuto in cambio di niente.

Oreste: Perché negare a costoro la disperazione che è in me, poiché tale è la loro sorte?

Giove: Che ne faranno?

Oreste: Quello che vorranno: sono liberi e la vita dell’uomo comincia al di là della disperazione.

Polange

mercoledì 24 marzo 2010

Difesa dell'allegria



Difendere l’allegria come una trincea
difenderla dallo scandalo e dalla routine
dalla miseria e dai miserabili
dalle assenze transitorie
e da quelle definitive

difendere l’allegria come un principio
difenderla dallo sbalordimento e dagli incubi
dai neutrali e dai neutroni
dalle dolci infamie
e dalle gravi diagnosi

difendere l’allegria come una bandiera
difenderla dal fulmine e dalla malinconia
dagli ingenui e dalle canaglie
dalla retorica e dagli arresti cardiaci
dalle endemie e dalle accademie

difendere l’allegria come un destino
difenderla dal fuoco e dai pompieri
dai suicidi e dagli omicidi
dalle vacanze e dalla fatica
dall’obbligo di essere allegri

difendere l’allegria come una certezza
difenderla dall’ossido e dal sudiciume
dalla famosa patina del tempo
dalla rugiada e dall’opportunismo
dai prosseneti della risata

difendere l’allegria come un diritto
difenderla da Dio e dall’inverno
dalle maiuscole e dalla morte
dai cognomi e dalle pene
dal caso
e anche dall’allegria

Mario Benedetti

bottiglia nel mare



El mar es un azar
- Vincente Huidobro


Affido questi sei versi alla mia bottiglia nel mare
con il segreto proposito che un giorno
giunga ad una spiaggia quasi deserta
e un bambino la trovi e la stappi
e invece che versi estragga piccole pietre
e aiuti e ammonimenti e lumache.


Mario Benedetti

la vertigine senza modernità



In noi vi sono tutte le passioni
e tutti i vizi
e tutti i soli e le stelle
abissi e alture,
alberi, animali, boschi, fiumi.
Questo siamo.
Le nostre esperienze
sono nelle nostre vene,
nei nostri nervi.
Vacilliamo.
Ardenti
tra grossi blocchi di case.
Sopra ponti d'acciaio.
Luce da mille tubi
ci avvolge,
e mille notti violette
incidono rughe profonde
nei nostri volti.



George Grosz


E’ proprio lui, il disegnatore e pittore tedesco del deforme e del grottesco, il critico feroce della decadenza della borghesia a cavallo delle due guerre, l’ esponente della corrente della Nuova Oggettività, amico di Otto Dix e di tutte le avanguardie del Novecento: George Grosz. Nel 1933 fuggì dalla Germania nazista per riparare a New York. Durante l’esilio americano egli scoprì il giovane talento di Andy Warhol e mostrò una sana antipatia per Jackson Pollock.
In questa poesia espressionista Grosz ripropone la visione di una modernità “tentacolare”,dalle luci violette come quelle dell’inferno dantesco, fatta di mille tubi che stritolano e di vite in bilico sopra “ponti d’acciaio”. Nulla da invidiare alle atmosfere del T.S. Eliot della Terra Desolata”e del resto, già Thomas Mann parlava della città come di una "Weltstadt prussiana americana". New York come Berlino, come Londra, come Tokyo, Parigi… “questo siamo” scriveva Grosz, eh sì, nel mondo omogeneizzato e reso conforme da merci e denaro il “vacillare” non è lo stordimento futurista, l’ebbrezza della corsa verso le promesse dell’avvenire ma la trasfigurazione del volto dell’umano, le rughe della specie: “le nostre esperienze sono nelle nostre vene, nei nostri nervi”. Nessuna apocalisse da coniugare al futuro per Grosz, come diceva Heidegger “il terribile è già accaduto”.


polange




LA BIBLIOTECA DELLE IMMAGINI MAI VISTE



«Io ascolto senza guardare e così vedo»
Pessoa

"Le immagini non sono più quelle di un tempo. Impossibile fidarsi di loro. Lo sappiamo tutti. Lo sai anche tu. Mentre noi crescevamo le immagini erano narratrici di storia e rivelatrici di cose. Ora sono tutte in vendita con le loro storie e le loro cose. Sono cambiate sotto i nostri occhi. Non sanno più come mostrare noi. Hanno dimenticato tutto. Le immagini vengono vendute al di là del mondo, Winter, e con grossi sconti. [...] Io amo davvero questa città. Lisboa e c’è stato un tempo che io veramente l’ho vista di fronte ai miei occhi. Ma puntare una cinepresa è come puntare un fucile e ogni volta che la puntavo mi sembrava come se la vita si prosciugasse dalle cose. E io giravo, giravo, ma ad ogni colpo di manovella la città si ritraeva. Svaniva sempre di più, sempre di più. Come il gatto di Alice. Nada. Stava diventando insopportabile. Dio lo spavento che mi ha preso. A questo punto ho cercato il tuo aiuto. E per un po’ ho vissuto con l’illusione che il suono potesse salvare il giorno, che i tuoi microfoni potessero strappare le mie immagini dalle loro tenebre. No, non c’è speranza. Non c’è speranza per nulla, Winter. Non c’è speranza, Ma questa è la strada Winter e io voglio percorrerla. Ascolta. Un’immagine che non sia stata vista non può svendere nulla. È pura e perciò vera e meravigliosa. Insomma innocente. Finché nessun occhio la contamina è in perfetto unisono con il mondo. Se nessuno l’ha guardata, l’immagine e l’oggetto che rappresenta, sono uno dell’altra. Sì, una volta che l’immagine è stata vista l’oggetto che è in essa muore. Ecco, Winter, la mia biblioteca delle immagini non viste. Ognuno di questi nastri è stato girato senza che nessuno guardasse attraverso la lente, Nessuno li ha visti mentre venivano impressi. Nessuno, dopo, che li abbia controllati. Tutto quello che ho ripreso, l’ho ripreso alle mie spalle. Queste immagini mostrano la città com’è e non come vorrei che fosse. Insomma queste sono nel primo dolce sonno dell’innocenza. Pronte per essere scoperte da generazioni future con occhi diversi dai nostri. Non preoccuparti amico saremo morti da un pezzo".

[La biblioteca delle immagini mai viste – Lisbon Story Wim Wenders 1994 ]

Il mondo così com’è e non come vorremmo che fosse … un percorso inverso, l’unico in grado di restituire vita alla vita, quello proposto in Lisbon Story, dove l’occhio non forgia il taglio dell’immagine né il suo senso ma sparisce in ciò che non vede e non può vedere. La lente, oggetto senza attore, crea una semantica sconosciuta che racconta di altri oggetti, un universo che sfugge all’umano e che forse potrà raccontarlo nell’innocenza del distacco più radicale, nel “non esserci” e “non interpretare”, nel mondo che si spiega da sé … Tutto ciò per sottrarsi all’immagine commercializzata, al ritratto devastato e svilito da un occhio che non è più capace di guardare né di narrare ma solo di vendere e confezionare mentre la realtà si allontana, si ritrae con i rivoli chiaroscuri che ne costituivano l’irrinunciabile esegesi. La strada da percorrere è l’oblio dell’occhio antropico, alla canna di fucile della macchina da presa, killer evidente del reale per difetto di umanità dell’umano non può che opporsi il glaciale sguardo della lente senz’iride, aspettando bulbi oculari che facciano sponda dal futuro al fine di tradurre il puro non visto e a rendere grazia alla grazia. Wenders anticipa nel 1994 la questione di questo nuovo decennio, un tempo in cui gli umani si vanno oggettivizzando e l’oggetto è capace di animarsi di vita propria, un interscambio che un giorno lontano,lontanissimo per noi, forse potrà ricomporsi e ritrovare il suo giusto posto.
Nel suo film è il suono, la musica dei Madredeus a segnare ancora l’impronta dell’umano, sono i rumori della città di Lisbona a dilatare il senso del reale e dell’immaginifico sprangati in una visione ormai cieca e strabordante di assenza .
polange






sabato 27 febbraio 2010

OVUNQUE PROTEGGI


Ci sono canzoni che hanno il dono della grazia e della leggerezza calviniana, melodie che sembrano inscindibili dalle parole che le accompagnano e che ci appaiono "smisurate" nella loro perfezione come se ci gettassero addosso tutto il peso, la durezza acre dell'esistere e poi d'improvviso ci levassero al cielo spezzando catene, liberandoci dalle scorie impure del quotidiano per condurci in un luogo che forse, credenti e non credenti, a Oriente e ad Occidente, non sappiamo più riconoscere, il luogo della speranza senza il disperare, la casa del sacro e dell'umano. Le preghiere non si affacciano solo nei luoghi di culto, le preghiere dei cori greci erano quelle rivolte a scongiurare gli dei dal temibile peggio, la preghiera come cosa dell'anima che attinge al profondo è una dichiarazione di libertà e di perdono recitata in ogni stagione.
Omnia munda mundis, "tutto è puro per i puri" è scritto ma Nietzsche aggiungeva sarcastico che "tutto sa di porco per il porco". Il mondo che noi abitiamo non è che la visione del mondo di ognuno, e, mi rendo conto, che la grazia necessita di molti sostenitori in questa fase storica. L'ultima qualità che il conformismo cerca è la levità della grazia, l'ultimo posto in cui la si cerca è in alto e nel profondo di sè.

Ma si sa, per chi viene da lontano, dai luoghi sacri della memoria e conosce l'arte paziente del custodire, per chi è cresciuto inseguendo senso e ragione, sbagliando strada per cominciare sempre e di nuovo, perduto dietro i propri sè, uguale e diverso in ogni tempo, in attesa, in attesa di un ritorno, un ritorno che vada oltre i "prima" e i "poi" - la grazia è un dono naturale. Viene come il sole, la pioggia, il vento...basta esser vivi.
polange


A questo pezzo, Vinicio Capossela fa precedere , durante i suoi concerti, il passo dell'Ecclesiaste:


Omnia tempus habent,
et momentum suum cuique negotio sub caelo:
tempus nascendi et tempus moriendi,
tempus plantandi et tempus evellendi quod plantatum est,
tempus occidendi et tempus sanandi,
tempus destruendi et tempus aedificandi,
tempus flendi et tempus ridendi,
tempus plangendi et tempus saltandi,
tempus spargendi lapides et tempus eos colligendi,
tempus amplexandi et tempus longe fieri ab amplexibus,
tempus quaerendi et tempus perdendi,
tempus custodiendi et tempus abiciendi,
tempus scindendi et tempus consuendi,
tempus tacendi et tempus loquendi,
tempus dilectionis et tempus odii,
tempus belli et tempus pacis.


Antico Testamento, Liber Ecclesiastes III, vv. 1-8 *





__________

* [1] Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
[2] C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.

[3] Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.

[4] Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.

[5] Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

[6] Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.

[7] Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.

[8] Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

venerdì 26 febbraio 2010

Monologo del non so


Per tutte le volte che giro in tondo e vorrei capire...
polange


Io non so se questa mia vita sta spianata su un

buco vuoto. Non so se il silenzio che indago

é intrecciato alla mia sostanza molle.

Io non so se quello che cerco e ho cercato e

cercherò, non so se quello che cerco

é un insulto a quel vuoto.

Non so se questo fatto di non avere

un paio d’ali sia premio o castigo,

io non so se la polveriera

della mia inquietudine sia un trono

su cui mi siedo minacciato, se la fuga che

a scatti regolari mi pungola, se quel

puerile sogno di fuga sia uno sgambetto

d’angelo, d’un buffone d’angelo che

mi vuole inciampare.

Io non so se l’amore sia una guerra o una

tregua, non so se l’abbandono d’amore

sia una legge che la vita cuce fino al

ricamo finale. Io non so

che farmene di questi nemici che premono,

non so che farmene oggi di questo oggi e me lo ciondolo fra le dita perplesse,

non so parlare di quello che

è sentito nel profondo me, non so parlarlo

quell’essere che é qui presente fra le vite degli

altri.


Io non so perché guardando l’acqua del mare

mi salta in petto una gioia di figlio con la

madre. Non so se questa uscita mia in un secolo

a caso, se questo essere qui a casaccio,

io non so spiegarmi questa malattia

all’attacco del mondo, non so guarire

questa malattia che indolora e vorrei

sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di

tregua, in un’arcadia anche retorica,

in un dormire abbracciato dei

guerrieri che si innamorano.

Io non ho capito e dovrei,

non ho capito il mondo della

vita, io non ho capito la legge sottostante

e non ho da fare la consegna a

questi cuccioli che aspettano, che esigono

da me l’aver capito.



Il mio Graal l’ho ritrovato e perso cento

volte.


Io non so se la bellezza è questa accademia di

centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa

carnevalesca decadenza di saltimbanchi,

io non mi spiego la crocifissione

della grazia, e non mi spiego perchè

mi trovo in questo covo rivoltato

in questa fossa con gli orchi attuali

in questo lato barbarico della specie,

e non so perchè stando a occidente non si

ode quell’alleluia delle cose.

Io non so se in questa schiena

senza ali ci son grandi pianure da cui fare

il decollo, se in questa spina dorsale

ci sono istruzioni

per la manovra di decollo, se sono io la freccia

di questo arco della schiena, se sono io

arco e freccia, non so in quale mano

non mano o zampa di Dio mi stanno

torchiando, e sottoponendo al duro

allenamento dei dolori terrestri.

Io non so se la solitudine, se quello

strazio chiamato solitudine, se quell’andare

via dei corpi cari, se quel restare soli

dei vivi, io non so se quel lamento della

solitudine, se quel portarci via le facce

se quel loro sparire

di facce che avevamo dentro il respiro, non so

se il dono sia questo portarci via le

carezze, questa slacciatura.

E’ poco il poco che so e di questo

poco io chiedo perdono. Io chiedo

perdono per quello che so, perdono io chiedo

per tutto quello che so.



( Da Parsifal, in Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, di Mariangela Gualtieri, Einaudi, 2005

venerdì 19 febbraio 2010

LA GUERRA DELL'ACQUA

La guerra dell’acqua

articolo apparso venerdì 19 febbraio, 2010 su ZonaFranca
http://www.zonafrancanews.it/opinione/opinione/la-guerra-dellacqua

scritto da Angela Poli

In questi ultimi mesi, è in atto in Italia uno scontro tra enti locali, Movimenti civili e Governo su una questione dalla cui soluzione dipenderà il destino di noi tutti e anche quello delle generazioni future. L’oggetto della battaglia è l’”oro blu” del nuovo millennio, l’acqua, una conquista del XX secolo portata dritto nelle nostre case e che oggi diventa, grazie ad un decreto blindato in Parlamento a fine novembre, una merce qualunque, come una camicia o un sacchetto di popcorn acquistati al centro commerciale. La privatizzazione dell’acqua è passata nell’ articolo 15 di un decreto rabberciato divenuto legge con voto di fiducia, contenente un po’ di tutto, indicazioni sull’uso del marchio “Tutto italiano”, nuove disposizioni sugli elettrodomestici, le lampadine e altro. Inizia così, all’insaputa dei più, un’era nuova, che apre i battenti alla gestione privata e ai capitali finanziari e che “costringe” gli enti locali a liquidare il sistema idrico al miglior offerente. L’idea di fondo, o la pia illusione, è che i privati garantiscano più efficienza attraverso un ammodernamento della rete idrica. Inoltre, si tratterebbe di un’abile manovra per rimpinguare le casse in quei Comuni immiseriti dal taglio dell’ICI. E’ noto che quei Comuni italiani da tempo serviti dalle grandi Spa o multinazionali vedono un aumento delle tariffe a fronte di un peggioramento dei servizi. Quello che si tace, ignorando la legislazione europea, è che la privatizzazione dell’acqua è il tentativo di depredare un territorio già aggredito da malavita e malaffare, è la svendita silenziosa di un patrimonio comune, e vendere al cittadino a caro prezzo l’acqua dei fiumi, dei pozzi, delle sorgenti demaniali equivale al commercio dell’aria, del sole, del mare…insomma, Totò che tenta di vendere la Fontana di Trevi.

In tutto il mondo assistiamo alla lotta tra il diritto all’acqua e le multinazionali pronte a gettarsi nell’affare del secolo. La straordinaria crescita del nostro pianeta con le più aspre conseguenze dei mutamenti climatici fanno sì che gli anni che verranno vedranno la riduzione del livello dell’acqua potabile che diverrà sempre più preziosa. Molti pensano che se le guerre del XX secolo miravano al petrolio, quelle del XXI secolo avranno come oggetto del contendere l’acqua. L’acqua è fonte di vita, è bene comune dell’umanità e diritto inalienabile, non è soggetta a leggi di mercato, è diritto fondamentale della persona e non una merce, questi sono i principi che a partire dalla Carta Europea dell’Acqua del 1968 fino al Contratto Mondiale dell’Acqua ispirano le società civili e le politiche in tutto il pianeta.

Intanto in Italia è rivolta dei Sindaci, mentre in Puglia, per primo, il governatore Nichi Vendola con la sua giunta, impugna l’articolo 15 del decreto Ronchi per incostituzionalità, delibera la ripubblicizzazione dell’Acquedotto pugliese e getta le basi di una politica virtuosa a difesa del diritto di tutti all’acqua come “bene essenziale e insostituibile per la vita”. Seguono l’esempio pugliese numerosi Comuni italiani di diversi colori politici e di recente anche la giunta regionale piemontese. Il Papa l’ha scritto nella sua recente enciclica, i vescovi lo ripetono, i sacerdoti di Altamura firmano una petizione: l’acqua non ha padroni.

Ma come funziona altrove? A Parigi, il sindaco Delanoë ripubblicizza l’acqua con un ente pubblico denominato “Eau de Paris” con grande risparmio per i cittadini. Gli Stati Uniti si tengono stretta la loro acqua municipalizzata. La Svizzera ha fatto dietrofront e ha posto il monopolio di Stato sull’acqua. Molti paesi dell’America Latina introducono nel loro statuto il principio di “acqua bene comune dell’umanità”. La questione richiede una nuova dimensione etica del pubblico e della gestione dei beni comuni. E’ il tema che dovrebbe riguardare non solo le agende politiche di chi fa politica per la gente e non per il Mercato ma anche il semplice cittadino. Per non rinunciare alla propria porzione di sovranità e quindi ai propri diritti e a quelli dei propri figli a favore della legge cinica del Mercato che tutto mercifica, e che tenterà dopo lo shopping dell’acqua di venderci l’aria che respiriamo, l’ultimo elemento empedocleo rimasto non ancora confezionato per l’acquisto.

Sermone ai cuccioli della mia specie


[Water walk - Josef Hoflehner]

Cari cuccioli,
vi ho guardato a lungo.
Ero lì nascosta nel buio
e vi guardavo giocare,
nascosta nel buio come una carogna,
come una spia che studia
il nemico, come un ladro che aspetta
il momento buono,
come un terrorista
che guarda a distanza
e fa i suoi piani d’innesco.
Io vi guardavo ammutolita,
intenerita da voi,
cari cuccioli della mia specie,
e poi anche disgustata da voi
che eravate lì inermi a un palmo dal
mio naso.

Siete indeboliti cuccioli. Siete
Spaventati e soli. Siete avidi. Siete sazi. Siete svuotati.
Sfiniti siete. Siete vinti.

Io vi guardavo da una quasi nausea,
da tutto quel buio: ricordavo
un’antica infelicità d’infanzia, un’antica
paura.
Ricordavo bene quell’essere fra gli
Altri, spersa, sola.
La mia paura me la ricordavo,
guardando la vostra. Ricordavo bene
il mio sguardo, come se lo avessi
sempre visto da fuori:
sbigottito, quasi non ci credevo
d’essere in questo mondo,
non me lo spiegavo, il mondo,
non mi raccapezzavo.
Come precipitata ero,
dalle altezze caduta molto giù,
molto di lato, nel mondo degli uomini
e delle donne. Nel mondo
delle case di mattoni.
Nel mondo dove si lavora e
Si mangia e si dorme e
Si fa la cacca ogni giorno
E ogni giorno si fa la pipì
Tante di quelle volte e si mangia e
Si dorme e ci si lava la faccia.

Da dentro quello sguardo,
chiusa lì dentro
nella mia fortezza
io guardavo il mondo dei grandi e
provavo una grande pietà.
Io li sentivo che piangevano dentro.
Sentivo che non ce la facevano.
Li sentivo gridare dentro. Con muri
dentro, con scarafaggi e muffe,
dentro.
E un giorno,
quando ero molto piccola,
ho fatto giuramento,
un giuramento infante,
senza le parole, ma chiarissimo
e sonante:
io me li prendo tutti nel petto
e li scampo
li porto in salvo.

Ho giurato così,
senza dire neanche una
di queste parole,
ma con tutte queste parole più forti cento volte.
Nel mio letto, vicino al grande
Armadio con lo specchio,
fra le sponde alte di legno,
con la sorella vicina che tossiva,
giuravo forse ogni notte, per quella
tosse, per la faccia stanca
del mio babbo, e per tutte le facce
dei grandi,
coi loro segni come di grande pena.
Una bambina nel suo letto
ha fatto il giuramento,
recitato la formula che salva,
forse ha vinto sulla morte
e sul mondo.

Aspettavo il giorno in cui mi
avrebbero detto il grande segreto.
Sentivo, lo sapevo, che dietro al loro
non dire niente
si nascondeva la grande verità.
Sentivo, lo sapevo, che loro sapevano
tutto quello che io non sapevo.
Sentivo che un giorno me lo
avrebbero detto
e io avrei capito il mondo
e non avrei sofferto come loro,
perché loro stavano già soffrendo
anche per me. Sentivo e aspettavo.

Poi molto piano, molto in ritardo,
molto piano, millimetro dopo
millimetro,
in un lavoro di tic tac e minuti molto
piccoli, piano piano,
sono passata di là,
sono caduta del tutto nel mondo,
appiattita, schiacciata al suolo
in un lento atterraggio.

Adesso, cari cuccioli, io sono grande.
Sono molto grande.
Sono quello che mai e poi mai
avrei voluto essere:
una persona grande.
Adesso io sono dei loro.
Adesso lontanissima sono
dai miei favolosi sette anni,
quando ero un genio buono,
uscito da poco dalla lampada,
e un filosofo ero, ma senza
le parole, un grandioso poeta
analfabeta, un artista senz’arte.

Adesso da qui, da questo esilio duro,
da questo corpo con peso, da questa
mente complicata,
da questa mente ingombrante,
da qui,
da questo buio che è tutto il mio,
da qui vi guardo, adorandovi.
Vi chiedo aiuto.
Una parte di me vi supplica,
vi implora, vi chiede aiuto e aiuto.
Adesso tocca a voi salvarmi, fare
Il giuramento.
Potrete? Ci riuscirete? Mi sentite?
Sentite?

Dicono che siete rotti.
Siete sazi, dicono. Corrotti.
Rovinati siete, come tutto il resto.
Anche voi nella lista lunga delle
Perdite: l’acqua, l’aria, il silenzio,
il pudore… Anche voi.
Stuprati siete, rotti. Vecchissimi e
Troppo stanchi per l’infanzia. Scarichi.
Vuoti.

Allora adesso imparate.
Imparate l’odore dei nemici potenti.
Sbranate, cuccioli, le loro mani piene.
Scassate le loro tane come galere.
Sputate sui loro piatti, incendiate le
Stanze gonfie di giocattoli,
scappate, morsicate, tirate pietre sui
televisori, scalciate, spaccate questo
micidiale nostro sogno, l’inesauribile
bisogno di confort,
fateci a pezzi, scancellate noi, puniteci
per avere fatto di voi
le nostre miniature
per avervi disinnescati, resi innocui,
per non avervi ascoltati, nel vostro
sommo sapere.

Voi che eravate le porte
del regno dei cieli
e chi non passava da voi non passava
voi che eravate purissima gioia
voi che eravate noi bloccati nella
più grande bellezza
voi che somigliavate ai cuccioli
degli altri animali
voi che capivate lo splendore
misterioso degli animali
voi che dormivate un sonno perfetto
e benedetto
voi che vi svegliavate ridendo
voi che facevate balletti strepitosi.
Voi, nostre divinità domestiche.

Nascete ancora, cuccioli. Restate.
Siate. Salvate. Giurate. Siate. Siate.
Siate.


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Mariangela Gualtieri