mercoledì 23 dicembre 2009

NATALE A COLORI





Non ho mai amato l'atmosfera natalizia e di fine anno, mi mette tristezza e malinconia, se non talvolta, proprio malumore. Preciso: una certa atmosfera finta e melensa. Bisogna essere forzatamente felici, indossare le maschere della bontà, entrare nella giostra consumistica dell' "io do, tu dai", mischiarsi alla folla e inseguire la compagnia, officiare il rito della massa, sfuggire allo spettro mortale delle quotidiane solitudini intorno. Io invece, vorrei incontrarle tutte queste mille solitudini, vivere giorni "allo scarto", depistati dal senso comune e dai consueti itinerari ma dotati di significato proprio, da tesaurizzare, una ricchezza in più alla memoria, un senso all'incontro e un omaggio al vivere...uno sporgersi anche nel dì di festa nel mondo di quei sogni che fanno circolare idee e poi le sollevano e le rifrangono...
polange


Lettera a un marocchino------------ --------- --------
Lettera al "fratello marocchino"
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(Don Tonino Bello)


Fratello marocchino. Perdonami se ti chiamo così, anche se col Marocco non hai nulla da spartire. Ma tu sai che qui da noi, verniciandolo di disprezzo, diamo il nome di marocchino a tutti gli infelici come te, che vanno in giro per le strade, coperti di stuoie e di tappeti, lanciando ogni tanto quel grido, non si sa bene se di richiamo o di sofferenza: tapis!
La gente non conosce nulla della tua terra. Poco le importa se sei della Somalia o dell'Eritrea, dell'Etiopia o di Capo Verde. A che serve? Il mondo ti è indifferente.
Dimmi marocchino. Ma sotto quella pelle scura hai un'anima pure tu? Quando rannicchiato nella tua macchina consumi un pasto veloce, qualche volta versi anche tu lacrime amare nella scodella? Conti anche tu i soldi la sera come facevano un tempo i nostri emigranti? E a fine mese mandi a casa pure tu i poveri risparmi, immaginandoti la gioia di chi li riceverà? E' viva tua madre? La sera dice anche lei le orazioni per il figlio lontano e invoca Allah, guardando i minareti del villaggio addormentato? Scrivi anche tu lettere d'amore? Dici anche tu alla tua donna che sei stanco, ma che un giorno tornerai e le costruirai un tukul tutto per lei, ai margini del deserto o a ridosso della brugheria?
Mio caro fratello, perdonaci. Anche a nome di tutti gli emigrati clandestini come te, che sono penetrati in Italia, con le astuzie della disperazione, e ora sopravvivono adattandosi ai lavori più umili. Sfruttati, sottopagati, ricattati, sono costretti al silenzio sotto la minaccia di improvvise denunce, che farebbero immediatamente scattare il "foglio di via" obbligatorio.
Perdonaci, fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo neppure l'ospitalità della soglia. Se nei giorni di festa, non ti abbiamo braccato per condurti a mensa con noi. Se a mezzogiorno ti abbiamo lasciato sulla piazza, deserta dopo la fiera, a mangiare in solitudine le olive nere della tua miseria.
Perdona soprattutto me che non ti ho fermato per chiederti come stai. Se leggi fedelmente il Corano. Se osservi scrupolosamente le norme di Maometto. Se hai bisogno di un luogo dove poter riassaporare, con i tuoi fratelli di fede e di sventura, i silenzi misteriosi della tua moschea. Perdonaci, fratello marocchino. Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha... il colore della tua pelle.

lunedì 21 dicembre 2009

IO SONO VERTICALE



Mi imbatto oggi, in una poesia piuttosto nota di Sylvia Plath (1932-1963), versi che mi capita di incrociare di tanto in tanto, tra le mie raccolte poetiche o vagando per improvvisati itinerari telematici, incontri occasionali e fortuiti,come accade a vecchi amici che si riconoscono allo sguardo e riattivano ogni volta il cerchio della memoria...


polange


Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.

Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un'aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell'uno la lunga vita, dell'altra mi manca l'audacia.
Stasera, all'infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto -
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.

Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.

Sylvia Plath

martedì 8 dicembre 2009

Il tempo, la materia e l'uomo nell 'universo ...




“Dal giorno in cui una statua è stata terminata, comincia, in un certo senso la sua vita. E’ superata la prima fase, che, per l’opera dello scultore, l’ha condotta dal blocco alla forma umana; ora una seconda fase, nel corso dei secoli, attraverso un alternarsi di adorazione, di ammirazione, di amore, di spregio o di indifferenza, per gradi successivi di erosione e di usura, la ricondurrà a poco a poco allo stato di minerale informe a cui l’aveva sottratta lo scultore.
Non abbiamo più, inutile dirlo, una sola statua greca nello stato in cui la conobbero i contemporanei: scorgiamo appena qua e là, sulla capigliatura di una Kore o di un Kuros del VI secolo, lievi tracce di colore rossastro, comparabili oggi alla più pallida henna, che attestano la loro qualità antica di statue dipinte, con la vita intensa e quasi terrificante di manichini di idoli che per di più sarebbero capolavori.
Questi materiali duri, modellati a imitazione delle forme della vita organica hanno subito, a loro modo, l’equivalente della fatica, dell’invecchiamento, della sventura. Sono mutati come il tempo ci muta. Gli scempi dei cristiani o dei barbari, le condizioni in cui hanno trascorso sotto terra i secoli di abbandono sino alla scoperta che ce li ha restituiti, i restauri sapienti o insensati di cui si avvantaggiarono o soffersero, le incrostazioni o la patina falsa e autentica, tutto, fino all’atmosfera dei musei ove nei nostri tempi sono rinchiusi, ne segna per sempre il corpo di metallo o di pietra.
Talune di queste modificazioni sono sublimi. Alla bellezza come l’ha voluta un cervello umano, un’epoca, una particolare forma di società, aggiungono una bellezza involontaria, associata ai casi della Storia, dovuta agli effetti delle cause naturali e del tempo. Statue spezzate così bene che dal rudere nasce un’opera nuova, perfetta nella sua stessa segmentazione: un piede nudo che non si dimentica, poggiato su una lastra, una mano purissima, un ginocchio piegato in cui si raccoglie tutta la velocità della corsa, un torso che nessun volto ci impedisce di amare, un seno o un sesso di cui riconosciamo più che mai la forma del fiore o del frutto, un profilo ove la bellezza sopravvive in un’assenza assoluta di aneddoto umano o divino, un busto dai tratti corrosi, sospeso a mezzo tra il ritratto e il teschio. Così un corpo scabro somiglia a un blocco sgrossato dalle onde; un frammento mutilo si differenzia appena dal sasso o dal ciottolo raccolto su una spiaggia dell’Egeo. Ma l’esperto non ha dubbi: quella linea cancellata, quella curva ora perduta ora ritrovata non può provenire se non da una mano umana, e da una mano greca, attiva in un certo luogo e nel corso di un certo secolo. Qui è tutto l’uomo, la sua collaborazione intelligente con l’universo, la sua lotta contro di esso, e la disfatta finale ove lo spirito e la materia che gli fa da sostegno periscono pressappoco insieme. Il suo disegno si afferma sin in fondo nella rovina delle cose."
Marguerite Yourcenar, Il tempo grande scultore , 1954

come tirarsi su il morale


Al termine del celebre libro che raccoglie i suoi reportages sull'Iran del 1980, Kapuscinski inserisce una pagina di assoluta verità e bellezza, di quelle che spiegano senza troppe parole, il senso e la grandezza di un popolo che sopravviverà alla storia...

" Quando voglio tirarmi su il morale e passare piacevolmente il tempo, vado in via Firdusi, dove il signor Firdusi vende tappeti persiani. Il signor Firdusi, che ha trascorso una vita a contatto con l'arte e la bellezza, guarda alla relatà circostante come a un film di serie B proiettato in un vecchio cinema pidocchioso. " E' solo questione di gusto" mi dice. " L'essenziale è aver gusto. Se un po' più di gente avesse un po' più di gusto, il mondo sarebbe diverso. Tutti gli orrori," lui li chiama orrori, "come menzogna, tradimento, furto, delazione si possono invariabilmente raggruppare sotto un unico denominatore: cose del genere le fa chi manca di gusto." E' convinto che il paese ce la farà a sopravvivere e che la bellezza sia indistruttibile. " Si ricordi," mi dice srotolando l'ennesimo tappeto (sa che non lo comprerò, ma vuole almeno rallegrarmi mostrandomelo), " che quel che ha permesso ai persiani di restare persiani per duemilacinquecento anni, quello che ci ha permesso di restare noi stessi malgrado tante guerre, invasioni, e occupazioni, è stata la nostra forza spirituale, non quella materiale; la nostra poesia, non la tecnica; la nostra religione, non le fabbriche. Che cosa abbiamo dato al mondo? La poesia, la miniatura e il tappeto. Come vede, tutte cose inutili dal punto di vista produttivo. Ma attraverso di esse ci siamo espressi. Abbiamo dato al mondo qualcosa che non ha reso la vita più facile, però l'ha abbellita, sempre che una distinzione del genere abbia senso. per noi, per esempio, il tappeto è un bisogno vitale. Lei srotola un tappeto in mezzo a un deserto ardente, ci si sdraia sopra e si sente come in un prato verde. Sì, i nostri tappeti ricordano i prati in fiore. Vi si vedono fiori, giardini, laghetti, e fontane. Tra i cespugli si aggirano pavoni. Un tappeto dura per sempre, un buon tappeto mantiene i colori per secoli e secoli. Quindi, anche vivendo in un deserto spoglio e monotono, lei vive in un eterno giardino che non perde mai colori nè freschezza. Può anche sbizzarrirsi a immaginare i profumi, il mormorio del ruscello, il canto degli uccelli. E allora si sente bene, si sente importante, più vicino al cielo: si sente un poeta."
Ryszard Kapuscinski (Shah-in-Shah, Feltrinelli, 1982)

Piccola metafisica del divenire

Quando ci si sofferma sulle soglie del presente...lo sguardo si amplifica e tutto appare un po' più chiaro. Si dilata l'essere nel pensiero serrato dentro un attimo.
Ma il tempo non smette di imbrigliarci nelle sue maglie strette e dentro questo "ora" scivoliamo già nel "poi" , incredibilmente liberi di fluire attraverso quel cielo senza confini che è l'anima nel suo "logos".

Il tempo del divenire è sempre passaggio e sconfinamento, dolore asciugato e incanto, passo e frontiera, infinito viaggio da sè a sè, come perenne rincorsa di uno straniero che è destinato ad incontrare ciò che già di noi è, il volto che ci assomiglia e che non ci è dato trattenere.

polange