sabato 31 ottobre 2009

noi siamo convinti che...


Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell'uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita.

Enrico Berlinguer

AMICIZIA


Ci sono amici che ti accompagnano senza nulla chiedere, quelli che partecipano alle tue giornate e quelli che possono dileguarsi e ritornare senza che si misuri il tempo che è trascorso, frecce scagliate nel futuro che non svaniscono mai dal tuo orizzonte, argine e balsamo al dolore, ponte fedele alla felicità, spiaggia e approdo della mente, sano antidoto alle relazioni esangui tessute dalla quotidianità. Ci vuole perseveranza e passione per l’amicizia. E’necessario l’ascolto gratuito, il gesto che apre la confidenza e lo sguardo che la sigilla, la comunicazione di una novità che non è mai scialba, la sensazione di “far ricchezza” nel confronto, di uscire finalmente dalla solidità oggettiva di quel discorso empirico praticato con gli estranei e i conoscenti per affrontare i percorsi dell’anima, del senso delle cose, delle domande senza risposta. Ci sono amici pazienti che ti aspettano se ti attardi nel tuo mondo convulso che consuma il tempo e ti porta al largo, amici che accolgono e che offrono riparo a quel bisogno d’anima che tace in solitudine e non trova spazio tra la moltitudine. Ci vuole profondità per l’amicizia. Non basta cliccare un tasto su Facebook e nemmeno abusare il termine per vestire relazioni ipocrite improntate all’usa-e-getta del mondo liquido. Ci sono amici, che anche quando non frequentiamo più, non se ne sono mai andati. Il tasto “delete” è rotto per chi sfugge alla legge del riciclaggio umano. Sono sempre pochi gli amici, ma quei pochi che ho incontrato, tutti, li porto con me.

Polange

“ Non è il tempo che ci manca, è la capacità di stare l’uno con l’altro in quella forma intermedia che non è la fusione dell’amore e neppure l’anonimato dei rapporti impersonali, è la capacità di muoverci in quella zona di confine tra le prescrizioni della ragione e quegli sprazzi di follia che di continuo attraversano la nostra anima e che solo l’amicizia sa accogliere. Perché proibirci questo spazio?
Tuteliamo l’amicizia. Forse è l’unico spazio che ci rimane per un residuo di sincerità, una sorta di riunificazione con noi stessi. A meno che ciascuno non sia diventato per se stesso il maggior ingombro da evitare, quando non da affogare con le cose da fare, per non trovarci mai a tu per tu con questo sconosciuto che lo sguardo accogliente dell’amico potrebbe incominciare a raccontare, a delinearne i contorni, a propiziarci l’incontro. E’ infatti la scoperta di noi quello che l’amicizia favorisce e propizia. Perché è con se stessi che bisogna essere leali, non necessariamente con il “vecchio amico”.


Umberto Galimberti

sabato 17 ottobre 2009

L'ODORE DELL'INDIA



Nel 1961, tre intellettuali italiani si recarono in India in occasione dell'anniversario dei cento anni del poeta Tagore: erano Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia. Pasolini e Moravia in realtà partirono nel dicembre 1960, la Morante, li aveva raggiunti nel gennaio 1961. Visitarono Bombay, New Dehli, Benares, Gwalior, Kajurao, Malabar, Calcutta.



Dall'esperienza di viaggio Pasolini sviluppò una serie di articoli che furono pubblicati sul "Giorno"e che vennero in seguito raccolti nel volume edito nel 1962 da Longanesi dal titolo L'Odore dell' India . Anche Moravia pubblicò un resoconto di quel viaggio, dal titolo opposto e speculare a quello di Pasolini: Una idea dell'India edito da Bompiani nel 1961.






Pasolini descrive un paese dalla forte umanità e dai grandi contrasti , di incredibili bellezze naturali e di templi sublimi, è colpito dalla nevrosi mistica dei santoni che guarda con occhi compassionevoli:


"A Kajurao, il giorno dopo, abbiamo avuto modo di vedere un altro di questi santoni. Kajurao è il posto più bello dell'India, anzi forse l'unico posto che si può dire veramente bello, nel senso "occidentale" di questa parola. Un immenso prato-giardino di gusto inglese, verde, di una tenerezza struggente, con delle buganvillee sparse a grossi cespugli rotondi, davanti a ognuno dei quali l'occhio si sarebbe perduto a goderne il rosso paradisiaco per ore intere. File di giovinette, col sari, tutte inanellate, lavoravano al prato: e, più in là, file di fanciulli, accucciati sull'erba, e, più in là ancora, giovani che portavano, appesi all'estremità di una pertica, dei secchi d'acqua: tutto in una pace di infinita primavera. E sparsi in questo prato, i piccoli templi: che sono quanto di più sublime si possa guardare in India.

Ai margini del prato, c'era una casetta, una catapecchia non lurida, di mattoni: un fuoco acceso dentro, e qualche suppellettile. Intorno, qualcuno stava trafficando, come preso dalle sue faccende. Era un uomo sui quarantatre anni , con una folta barba nera e una folta zazzera nera alla D'Artagnan. Il suo aspetto era immediatamente antipatico. osservandolo bene, infatti, si vedeva che non stava affatto sfaccendando, occupato ad accendersi il fuoco, a cucinarsi i fagioli o che so io: ma, con la stess attenzione, accuratezza e albagia, di chi fa un lavoro ritenuto indispensabile, stava accudendo a un cerimoniale sacro. Girava come un matto intorno alla catapecchia, si fermava, toccava degli oggetti, faceva dei gesti con le mani, si chiìnava a terra.

Lo lasciammo lì: chiuso nella sua maniaca concentrazione, in un cerchio infinito di tolleranza."





Nel suo resoconto Pasolini racconta anche della visita a madre Teresa di Calcutta e apprezzo molto la descrizione delle impressioni riportate con delicatezza e vigore e anche in questo caso, infinita umana compassione:



" A Calcutta, Moravia, la Morante e io siamo andati a conoscere suor Teresa, una suora che si è dedicata ai lebbrosi. Ci sono sessantamila lebbrosi, a Calcutta, e vari milioni in tutta l'India. E' una delle tante cose orribili di questa nazione, davanti a cui si è del tutto impotenti: in certi momenti ho provato dei veri impulsi di odio contro Nehru e i isuoi cento collaboratori intellettuali educati a Cambridge: ma devo dire che ero ingiusto, perchè veramente bisogna rendersi conto che c'è ben poco da fare in quella situazione. Suor teresa cerca di fare qualcosa: come lei dice, solo le iniziative del suo tipo possono servire, perchè cominciano dal nulla. La lebbra, vista da Calcutta, ha un orizzonte di sessantamila lebbrosi, vista da Delhi ha un orizzonte infinito.

[...]


Suor Teresa è una donna anziana, bruna di pelle, perchè è albanese, alta, asciutta, con due mascelle quasi virili, e l'occhio dolce, che, dove guarda, "vede". Assomiglia in modo impressionante a una famosa sant'Anna di Michelangelo: e ha nei tratti impressa la bontà vera, quella descitta da Proust nella vecchia serva Francesca: la bontà senza aloni sentimentali, senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica."

mercoledì 14 ottobre 2009


Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla.

E' tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive elegge realmente, cioè solo per sè, rientra a casa; sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando - per ragioni pratiche - è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. E' un povero, e rende la vita più povera.


da un'intervista ad Anna Maria Ortese, del 1977, raccolta in Corpo celeste, Adelphi, 1997

domenica 4 ottobre 2009

Signora Luna

ma, un privilegio è dato ai viandanti e agli insonni: potere alzare gli occhi al soffitto e per soffitto avere il cielo, e nel cielo vedere una volta, e nella volta selve di animali, nidi fioriti nel cielo, storie intrecciarsi tra i punti delle stelle e sentire che ognuno ne ha una, che brilla e lo regge con fili invisibili sul suolo della Terra come una marionetta. Sempre venire seguito dallo sguardo immemore della Signora Luna, che mai gira il volto a costo di farselo sparire nel buio.... (Vinicio Capossela)


Signora Luna
Persa nel cielo
lungo la notte del mio cammino
sono due luci
che mi accompagnan
dovunque sto
una nel sole
per quando il sole
mi copre d'oro
una nel nero
per quando il gelo
mi vuole a sé

signora luna che mi accompagni
per tutto il mondo
puoi tu spiegarmi
dov'è la strada che porta a me
forse nel sole
forse nell'ombra
così par esser
ombra nel sole
luce nell'ombra
sempre per me

perse nel cielo
lungo la notte
del mio cammino
sono due luci che brillan sempre
dovunque sto
brillano alte
brillano intense
finchè par essere
che siano gli occhi
di chi ho già perduto
che veglian per me

signora luna che mi accompagni
per tutto il mondo
puoi tu spiegarmi dov'è la strada
che porta a lei
non se ne adombri
signora luna se non ho amato
diglielo a ella
che solo ella
veglia per me

non se ne adombri signora luna
se non ho amato
solo negli occhi
di chi è già stato
veglia per me

ANGELUS NOVUS - L'Angelo della Storia


Mi piacerebbe realizzare ciò che sognava di fare Walter Benjamin, lo scrittore ebreo tedesco morto suicida nel 1940, cioè, scrivere un libro di citazioni, collezionare frasi , montarle, come se si trattasse di un'operazione tecnica da regista, e forse commentarle brevemente con la precisione scarna di un esegeta medievale. Ricucire con pazienza infinita l'ordito e la trama del deposito del passato con la strumentazione tecnica e le modalità del presente. Non si va molto lontano se non ci si ricorda da dove si è partiti e qual è il percorso compiuto. La trama della memoria si dipana e trova la sua ragion d'essere nel lavoro di riconnessione tra frantumi e macerie e questo lavoro si appropria degli strumenti della Techné. Non vi è alcun avvenire se l'Angelo della Storia non ha occhi, viso e ali ritorti verso il Passato, se non è in stato di resistenza nei confronti del progresso. E' necessario ricordarsi del proprio nome. Ricordare chi siamo. Mai voltare la testa dall'altra parte. A costo di sparire nel buio.



C'è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un'unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l'angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.

(dalle tesi Sul concetto di storia, Einaudi, 1997, pp. 35-7)
Walter Benjamin