venerdì 29 giugno 2012

UNA PAROLA

 Capo d'Otranto. Il punto più a Oriente dell'Italia. 


Accade di esser svegliati da parole, epifanie che aprono squarci e illuminano prontamente...accade di tornare allo "sterminato buio"...








Una parola, una frase: da cifrati
segni scoperta vita emerge, fulmineo senso:
ristà il sole, tacciono
le sfere, tutto in quella si raddensa.Una parola: un bagliore un volo, un fuoco,
un vampo, di stella cadente un brillìo.
Poi di nuovo sterminato buio,
nel vuoto spazio intorno al mondo, e all’io.


Gottfried Benn

NAUTICA CELESTE








Andrea Zanzotto e Vinicio. A unirli è la notte. L' inesausto andare di chi cammina in solitudine. La notte con i suoi astri e il suo satellite, il suo inaccessibile regno  "longinquo", terreno di battaglia per gli "aerei naviganti dello spirito" secondo la definizione di Nietzsche. E di verso in verso, di nome in nome, a ciascuno compete il proprio spazio tellurico e celeste,  la propria Ecate remota, il riflesso enigmatico di un Tutto che siamo solo noi. 

polange


"L'alba non ha fretta,
I miei passi è la notte che li aspetta
Fatevi più stretti attorno
Questa sera non mi basta il mondo
Tornano i miei passi in coro
Nel cerchio del Rebetiko da solo
Come una parata
Come in un addio
Questo ballo è solo il mio"



NAUTICA CELESTE 



Vorrei renderti visita

nei tuoi regni longinqui

o tu che sempre

fida ritorni alla mia stanza

dai cieli, luna,

e, siccom'io, sai splendere

unicamente dell'altrui speranza.



ANDREA ZANZOTTO

(Tratto da IX ecloghe, Mondadori, Milano)


Andrea Zanzotto, poeta lunare,  in uno scritto di  Antonio Tabucchi su La Repubblica del  19 ottobre 2011: 


Zanzotto sapeva captare le voci che vengono dalla luna. Ma prima di sintonizzarsi su di esse era percorso dai suoni che salgono dalla Terra che poi la luna a sua volta cattura sollevandoli fino "ai suoi regni longinqui" quando fa gonfiar la crosta terrestre e gli oceani. E li trasforma in parole per inviarli di nuovo sul nostro pianeta dove solo pochi eletti riescono a decifrarli. 
Zanzotto era un poeta così, e di questo me ne resi conto quando lo conobbi personalmente. Era il 1975. Grazie a Silvio Guarnieri ero andato a trovarlo a Pieve di Soligo. Stavamo fuori, sul suo Altopiano, e lui mi mostrava il paesaggio, parlava piano, con quella voce curiosa che solo lui aveva in certi momenti, come se le parole fossero piccole scariche di elettricità disgiunte le une dalle altre che si caricavano a vicenda, come in una specie di strano arco voltaico vocale. Non nego che la suggestione letteraria abbia avuto il sopravvento: mi mostrava il paesaggio e io pensavo che lo stesse squarciando per far guardare anche me Dietro il paesaggio; lo evocava, e io pensavo di stare dentro il suo Vocativo, di percorrere un' Egloga, di afferrare La Beltà grazie a un privilegiato Senhal cui finalmente potevo accedere.
 L' immagine che la mia memoria conserva di quel momento con Andrea è falsata dalla sovrapposizione della forte suggestione letteraria che in quel momento provai. Perché certo quello fu un momento assolutamente "normale", con dei comportamenti "normali", con una maniera di parlare "normale", in cui una persona amabile indicava a un giovane che era andato a trovarlo il vasto orizzonte che si vedeva da casa sua, il cielo cristallino di una freddissima giornata di gennaio, una nuvoletta minuscola che turbava l' azzurro di smalto e che non gli piaceva, facendomi notare l' abbaiare lontanissimo di un cane, come se fosse il fastidioso cane del vicino e che invece veniva dal profondo delle campagne. Questa, la realtà della situazione, sicuramente.
 Ma il ricordo che serbo di lui è come credetti di vederlo per un attimo: una creatura speciale, una sorta di ricettore-trasmettitore-emissore che coglieva il "rumore" che veniva da sottoterra con il compito di trasmetterlo in voce, in parole umane, a chi volesse ascoltarlo. Poi qualcuno si affacciò sulla porta, la mia allucinazione si ruppe e tutto rientrò nella norma.

Il secondo incontro avvenne grazie a Fernando Pessoa. Era il 1977. Con Luciana Stegagno Picchio e Maria José de Lancastre avevamo fondatoa Pisa una rivista di lusitanistica semestrale, Quaderni Portoghesi, e dedicammo il secondo numero a Fernando Pessoa, a quell' epoca in Italia poeta quasi ignoto. Stavo intanto preparando il primo volume di traduzioni pessoane che nel ' 78 uscì per Adelphi. Traducevo i testi fondamentali degli eteronimi Campos e Caeiro, del tutto ignoti in Italia, e stavo scrivendo sul problema dell' eteronimia, a quel tempo in gran parte ancora interpretata in Italia sulla falsariga delle "Maschere Nude" di Pirandello. Ebbi l' idea di intervistare Zanzotto su Pessoa. Le risposte di Andrea sono straordinarie: con l' acume di un rabdomante che può avere solo un poeta sintonizzato sulla stessa lunghezza d' onda del poeta di cui sta parlando, Zanzotto entra straordinariamente nel problema dell' eteronimia dal côté linguistico, ragiona di "protoscritture", di "oscuri linguaggi somatici", del conflitto fra "l' io e la lingua madre", della "gemmazione" delle parole, del rapporto fra realtà, realtà psichica e nominazione, di Kafka, di Beckett, dei punti di luce di un computer, delle proposte matematiche di R. Thom. Di quell' intervista mi sono un po' indebitamente impossessato accogliendola in un libro mio su Pessoa, ma sono felice che Andrea l' abbia inclusa anche nei suoi saggi e José Corti l' abbia scelta per la selezione dei suoi Essais critiques pubblicati a Parigi nel 2006. È il segno di una passione condivisa, di un' intesa. Perché Pessoa fu il punto di partenza di un colloquio, a volte telefonico, a volte epistolare, che pur nella sua discontinuità in tutti questi anni ha costituito una grande complicità fra me e Andrea. Zanzotto è un poeta di difficile catalogazione. Ricordo che nel ' 62, con la cortesia che lo caratterizzava, sulla rivista Comunità prese le distanze dall' antologia I Novissimi che aveva messo insieme le sue poesie con i testi della neo-avanguardia italiana (Balestrini, Sanguineti, Pagliarani, Giuliani, Porta). Con molto garbo rivendicava il fatto che la poesia è un fatto individuale, e si tirava indietro. Ma quella spiegazione non mi ha mai convinto del tutto. Secondo me detestava sentirsi chiamare un "novissimo". 

Era perfettamente consapevole di essere un poeta antichissimo posto dal caso nella nostra contemporaneità, uno di quei vati che come i presocratici raccolgono le voci del cosmo o quelle che circolano nel nostro profondo. Della rara famiglia dei poeti "lunari" (quella di Hölderlin, Rilke, Pessoa, Kafka, ma prima di tutto in Italia Leopardi), Zanzotto ha ri-ricevuto dal regno di Selene la voce per esprimere i suoni che sua sorella Gea gli trasmetteva attraverso le suole delle scarpe: le parole per dire qualcosa che non sapevamo e che conosciamo soltanto leggendolo.

 A quello spazio insieme tellurico e celeste di cui è stato uno stregato interprete, ha dedicato poesie ammirevoli. Ricordo solo quella che comincia con «Luna puella pallidula,/ luna flora eremitica,/ luna unica selenita,/ distonia vita traviata,/ atonia vita evitata,/ mataia, matta morula»e che termina con «la mia sostanza sgombri/ a me cresci a me vieni a te vengo». Ma oggi la poesia che voglio ricordare è Nautica celeste. «Vorrei renderti visita/ nei tuoi regni longinqui/ o tu che sempre/ figlia ritorni alla mia stanza/ dai cieli, luna». Andrea è partito in visita.

 - ANTONIO TABUCCHI


Il brano musicale Rebetiko Mou è contenuto nel nuovo album di Vinicio  Capossela "Rebetiko Gymnastas" uscito il 12 giugno in Italia e Grecia (La Cupa/Warner). Quattro brani inediti, una ghost-track e otto canzoni note reinterpretate in chiave rebetika.
Disco registrato negli storici studi Sierra in Atene su nastro analogico con l'accompagnamento di alcuni fra i migliori musicisti greci di rebetiko: Ntinos Chatziiordanou alla fisarmonica, Vassilis Massalas al baglamas, Socratis Ganiaris alle percussioni e soprattutto Manolis Pappos, sommo rebetes del bouzuki con una gloriosa carriera fatta di collaborazioni con musicisti del calibro di Theodorakis, Arvanitaki, Xarhakos, Galani, Papazoglou e Ntalaras. 
Il disegno di copertina è stato realizzato dal grande disegnatore francese David Prudhomme. 
Il booklet contiene i testi tradotti in greco ed esercizi ginnici per coloro che hanno desiderio di impratichirsi.

lunedì 25 giugno 2012

ELOGIO DEL SILENZIO





Ancora sul silenzio...vertiginoso, puro, iperuranico e abissale, assenza di suoni e di umani intorno, incommensurabile spazio sidereo che ci riporta ad una origine nella quale era già inscritta la nostra destinazione.  "In ogni istante della nostra vita siamo ciò che saremo, non meno di ciò che siamo stati."
Gli oceani di silenzio sono lancette sospese sul tempo dell'essere ...
polange

Il testo di "Oceano di Silenzio" è della scrittrice svizzera Fleur Jaggy, la musica di Franco Battiato, l'interprete è Alice nella versione del progetto God is my Dj.
Jesùs Urzagasti, è uno dei maggiori poeti boliviani contemporanei.


Il silenzio viene da molto lontano


per sentirlo devi penetrare nella densità dell’origine

toccare la materia che sfugge dai suoi gravi enigmi

sorprendere la quiete nascosta nel movimento

mettere sotto chiave il brusio ineguale del destino.

Con una parola puoi nominarlo

e sfiorarlo con il pensiero

ma nel suo instabile e vasto regno

nessuno entra se non a piedi scalzi.

Si installa dove il tempo si arresta

estraneo a ombre e luci

e se a un tratto svanisce

il ribollente mondo rimane attonito.

Nessuno sa perché la musica dell’universo

è l’altra faccia del silenzio

tutti ignorano su che cosa si fonda

un tale sortilegio senza partitura.

Porto di uscita e di arrivo

profondità che non si appanna sulle alture

specchio invisibile della solitudine

che abita in tutti gli angoli del corpo

qualcosa di ancora più puro è il silenzio

quando per il tanto meditare sull’immensità

che non ha mai un posto

ti arrendi e ne senti la mancanza.



JESUS URZAGASTI


lunedì 18 giugno 2012

UNO DI QUESTI GIORNI







La linea è delicata



e molto sottile


ho paura di calpestarla


ignoro da quale lato sto,


provo piacere


e pericolo;


elaboro il mio contorno


invento i giorni


e mi accomodo


sul foglio a me assegnato.






La calpesterò


la spezzerò.






Uno di questi giorni.



ANA MILENA PUERTA

Voce nera, nerissima quella di Paolo Nutini, artista scozzese di origine italiana. Grande sound vintage e altezze soul alla Otis Redding in questa No other way che struggente ci ricorda che le linee di confine si dipanano nella nostra testa e si riconoscono dal pulsare delle vene...
polange



domenica 17 giugno 2012

IVRESSE


Riflettevo in questi giorni: l'esortazione baudelairiana non è rivolta all'ubriacatura ma all'ebrezza, allo stordimento felice che solleva dalla tirannia feroce delle lancette dell'orologio. Ivresse è lo stato di chi ha fatto il pieno di bellezza senza annichilirsi, vino, poesia o virtù, purchè si celebri la vita...  


XXXIII • UBRIACATEVI

Bisogna sempre essere ubriachi. Tutto qui: è l'unico problema. Per non sentire l'orribile fardello del Tempo chevi spezza la schiena e vi piega a terra, dovete ubriacarvi senza tregua.
                  Ma di che cosa? Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi.
                  E se talvolta, sui gradini di un palazzo, sull'erba verde di un fosso, nella tetra solitudine della vostra stanza, vi risvegliate perché l'ebbrezza è diminuita o scomparsa, chiedete al vento, alle onde, alle stelle, agli uccelli, all'orologio, a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme, a tutto ciò che scorre, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla, chiedete che ora è; e il vento, le onde, le stelle, gli uccelli, l'orologio, vi risponderanno:
«È ora di ubriacarsi! Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare».


CHARLES BAUDELAIRE


DA VICINO






Ti scrivo da vicino, come se la mano


ti fosse oggetto breve affiorato,


come se dalla strada ti arrivasse


la piccola certezza per l’acquisto


dei minuti seguenti. Da vicino


come il sole, come la cicala.


Come un silenzio pieno


che ti venisse agli occhi di mattina


e amarti fosse l’abito


scelto al cominciar del giorno.



PEDRO TAMEN
 
 
Damien Rice : The Blower's daughter nella versione AOL Sessions. Brano noto anche perchè parte della colonna sonora del film Closer di Mike Nichols, del 2004 .
 

MURGIA KLEZMER




Da un "pianoterra" di Terlizzi, paese di Puglia, ai successi balcanici, la musica meticcia e klezmer della Municipale Balcanica...appena uscito il nuovo cd Offbeat di cui questo brano è il primo singolo...
A proposito di erranze e Tuareg...

SONGLINES



Questo raccontava Bruce Chatwin a Tom Maschler nel 1969 a proposito del libro "Le Vie dei Canti" (Songlines) : «La domanda cui cercherò di rispondere è la seguente: “Perché gli uomini invece di stare fermi se ne vanno da un posto all’altro?”»
Per gli aborigeni d'Australia la loro terra era un intreccio di Piste del Sogno e Vie dei Canti, un reticolato di percorsi visibili soltanto a coloro che erano nati e vissuti in quei luoghi. E il loro destino era ripercorrerli. Ogni passo dunque ricrea la Via degli Antenati, la musica dell'essere, l'Armonia di ogni tempo e traccia così il racconto segreto di un essere in sintonia col tempo, con tutti i tempi. Chatwin parte per  l'Australia con la valigia piena di moleskine ,con la curiosità ingenua di chi vuole  vedere di persona cosa accade lì. Riuscirà a  delineare nei suoi appunti la Metafica dell'Erranza, quello strano, ingovernabile istinto alla migrazione, il nomadismo di anima e piedi che significa appartenere alla terra, restare fedeli alla terra ma anche alle regioni smisurate del Mito e del Sogno, per camminare in accordo con il Sé e con  l'universo.
Le Vie dei Canti. Riecheggiano sotto i nostri passi, segnano i nostri incontri, ci fanno rete intorno, sentieri dell'anima che  tessono disegni che si oppongono a ciò che appare il vuoto inconoscibile del Tutto....

polange



"I nomadi, sulla Terra, tracciano linee di erranza: direzioni migratorie di branchi di renne o di bisonti, percorsi legati alla presenza periodica di punti d'acqua, allo spostamento delle zone di raccolta secondo le stagioni, [...] La Terra è la memoria degli uomini. Il suo paesaggio è la mappa delle epopee, il bacino dei saperi. Tutto lo spazio vive. I canti e i racconti narrano la Terra; la terra ricorda il tempo del sogno, il tempo delle origini che è sempre presente e muore insieme agli dei, se i canti non vengono ripresi, i viaggi di nuovo intrapresi e le linee di erranza sono disertate. E si riparte ancora in cammino, seguendo le orme degli antenati. Si torna sugli stessi luoghi, si canta di nuovo la Terra. E il passato rivive perchè non è mai passato".

Pierre Levy "L'intelligenza collettiva: per un'antropologia del cyberspazio" (Feltrinelli, 2002)

LE VIE DEI CANTI


In principio la Terra era una pianura sconfinata e tenebrosa, separata dal cielo e dal grigio mare salato, avvolta in un crepuscolo indistinto. Non c’erano né Sole né Luna né Stelle. Tuttavia, molto lontano, vivevano gli Abitanti del Cielo: esseri spensierati e indifferenti, dalle fattezze umane ma con zampe da emù, e capelli dorati lucenti come ragnatele al traamonto; erano senza età e perennemente giovani, poiché esistevano da sempre nel loro verde Paradiso lussureggiante al di là delle Nuvole occidentali.


Sulla superficie della Terra si vedevano soltanto le buche che un giorno sarebbero diventate i pozzi. Non c’erano né animali né piante, ma molli masse di materia concentrate intorno alle buche: grumi di minestra primordiale, silenziosi, ciechi, senza respiro né veglia né sonno: ciascuno aveva in sé l’essenza della vita o la possibilità di diventare umano.

Ma sotto la crosta della Terra brillavano le costelllazioni, il Sole splendeva, la Luna cresceva e calava, e giacevano nel sonno tutte le forme di vita: il fiore scarlatto di un pisello del deserto, l’iridescenza di un’ala di farfalla, i vibranti baffi bianchi di Vecchio Uomo Canguro – assopiti come i semi del deserto che devono aspettare un acquazzone di passaggio.

Il mattino del Primo Giorno, al Sole venne una gran voglia di nascere. (Quella sera le Stelle e la Luna lo avrebbero imitato). Il Sole squarciò improvvvisamente la superficie e inondò la Terra di luce dorata, riscaldando le buche in cui dormiva ogni Antenato.

Questi Uomini dei Tempi Antichi, diversamente dagli Abitanti del Cielo, non erano mai stati giovani. Erano vecchi zoppi e stremati dalla barba grigia e le membra nodose, e per tutti i secoli avevano dormito in solitudine.

Accadde così che quel primo mattino ogni Antenato dormiente sentisse il calore del Sole premere sulle proprie palpebre e il proprio corpo che generava dei figli. L’Uomo Serpente sentì i serpenti strisciargli fuori dall’ombelico. L’Uomo Cacatua sentì le piume. L’Uomo Bruco sentì una contorsione, la Formica del Miele un prurito, il Caprifoglio sentì schiudersi foglie e fiori. L’Uomo Bandicoot sentì piccoli bandicoot che fremevano sotto le sue ascelle. Ogni «essere vivente », ciascuno neI suo diverso luogo di nascita, salì a raggiungere la luce del giorno.

In fondo alle loro buche (che ora si stavano riempiendo d’acqua) gli Antenati distesero una gamba, poi l’altra. Scrollarono le spalle e piegarono le bracccia. Si alzarono facendo forza contro il fango. Le loro palpebre si aprirono di schianto: videro i figli che giocavano al sole.

Il fango si staccò dalle loro cosce, come la placenta da un neonato. Poi, come fosse il primo vagito, ogni Antenato aprì la bocca e gridò: « lo sono! ». « Sono il Serpente … il Cacatua … la Formica del Miele … il Caprifoglio … ». E questo primo « lo sono! », questo primordiale «dare nome », fu considerato, da allora e per sempre, il distico più sacro e segreto del Canto dell’Antenato.

Ogni Uomo deI Tempo Antico (che ora si crogiolava al sole) mosse un passo col piede sinistro e gridò un secondo nome. Mosse un passo col piede destro e gridò un terzo nome. Diede nome al pozzo, ai cannneti, agli eucalipti: si volse a destra e a sinistra, chiamò tutte le cose alla vita e coi loro nomi intessé dei versi.

Gli Uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando; cantarono i fiumi e le catene di montagne, le saline e le dune di sabbia. Andarono a caccia, mangiarono, fecero l’amore, danzarono, uccisero: in ogni punto delle loro piste lasciarono una scia di musica.

Avvolsero il mondo intero in una rete di canto; e infine, quando ebbero cantato la Terra, si sentirono stanchi. Di nuovo sentirono nelle membra la gelida immobilità dei secoli. Alcuni sprofondarono nel terrreno, lì dov’erano. Altri strisciarono dentro le grotte. Altri ancora tornarono lentamente alle loro «Dimore Eterne», ai pozzi ancestrali che li avevano generati. Tutti tornarono «dentro». (…)



I bianchi, cominciò Flynn, commettevano comunemente l’errore di pensare che gli aborigeni, non essendo stanziali, non avessero nessun sistema che regolasse il possesso della terra. Era una sciocchezza. La verità era che gli aborigeni non potevano immaginare il territorio come un pezzo di terra circondato da frontiere, ma piuttosto come un reticolato di «vie» o «percorsi».

«Tutte le nostre parole per “paese” » disse « sono le stesse che usiamo per “via” ».

Il perché si spiegava facilmente. Gran parte dell’outback australiano era costituito da aride distese di arbusti o da deserto sabbioso; là le precipitazioni erano sempre irregolari e a un anno di abbondanza potevano seguire sette anni di carestia. In un paesaggio simile, muoversi voleva dire sopravvivere, mentre rimanere nello stesso posto voleva dire suicidarsi. Il «paese natale» di un uomo era definito «il posto in cui non devo chiedere». Però, sentirsi «a casa» in quel paese dipendeva dalla possibilità di lasciarlo. Ognuno sperava di avere almeno quattro «vie d’uscita» da seguire in tempo di crisi. Ogni tribù – volente o nolente – doveva intrattenere rappporti con i suoi vicini.



«Così, se A aveva la frutta», disse Flynn «B aveva le anatre e C un giacimento d’ocra, c’erano regole formali per lo scambio di questi prodotti, e itinerari formali per metterlo in pratica».

Quello che i bianchi chiamavano walkabout era in pratica una specie di telegrafo del bush con servizio di Borsa, che diffondeva messaggi tra popoli che non si vedevano mai e che avrebbero potuto ignorare l’esistenza degli altri.

«Questo commercio» disse «non era il commercio che conoscete voi europei. Non era il mestiere di comprare e vendere per profitto! Il nostro popolo barattava sempre alla pari ».

Gli aborigeni, in generale, erano convinti che tuttte le merci fossero potenzialmente nocive e che avrebbero danneggiato i loro proprietari a meno che questi fossero perennemente in moto. Le « merci» non dovevano necessariamente essere commestibili, né utili. Nulla piaceva di più alla gente che barattare cose inutili – o cose che poteva procurarsi da sé: piume, oggetti sacri, cinture di capelli umani.

«Lo so» lo interruppi. «Qualcuno barattava il suo cordone ombelicale».

«Vedo che ti sei documentato ».

Le «merci », proseguì, dovevano piuttosto esser considerate fiches di un gioco gigantesco, il cui tavolo era il continente intero e i giocatori tutti i suoi abiitanti. Le «merci» simboleggiavano intenzioni: commmerciare ancora, incontrarsi di nuovo, stabilire frontiere, combinare matrimoni, cantare, danzare, condividere risorse e condividere idee.

Una conchiglia poteva passare di mano in mano, dal Mare di Timor alla Gran Baia, lungo «strade» tramandate dal principio dei tempi. Queste «strade» correvano lungo la linea di immancabili pozzi naturali. I pozzi, a loro volta, erano centri rituali dove si radunavano uomini di tribù diverse. (…)

«Vuoi dire che un itinerario degli scambi passa sempre per una Via del Canto? ».

«L’itinerario degli scambi è la Via del Canto» disse Flynn. « Perché sono i canti, non gli oggetti, il principale strumento di scambio. Il baratto degli “oggetti” è la conseguenza secondaria del baratto dei canti ».

Prima dell’arrivo dei bianchi, continuò, in Australia nessuno era senza terra, poiché tutti, uomini e donne, ereditavano in proprietà esclusiva un pezzo del canto dell’Antenato, e la striscia di terra su cui esso passava. I versi erano come titoli di proprietà che comprovassero il possesso di un territorio. Si poteva prestarli a qualcuno, e in cambio si poteva farsene prestare degli altri. L’unica cosa che non si poteva fare era venderli o sbarazzarsene.

Se per esempio gli Anziani di un clan del Pitone variegato decidevano che era tempo di cantare il loro ciclo di canti dall’inizio alla fine, inviavano messaggi lungo la pista, a nord, a sud, da tutte le parti, e convocavano nel Gran Posto i proprietari dei canti. Allora, uno dopo l’altro, tutti i « proprietari» cantavano il loro pezzo di orme dell’Antenaato. Sempre nella sequenza esatta!

«Invertire l’ordine dei versi» disse cupamente Flynn «era un delitto. Di solito veniva punito con la morte ».

«Sfido» dissi. «Sarebbe l’equivalente musicale di un terremoto».

« Peggio» disse accigliandosi. «Sarebbe distrugggere il Creato ».

«Un Gran Posto,» proseguì «ovunque fosse, era probabilmente il punto d’incontro di altri Sogni. Perciò ai tuoi corroboree partecipavano magari quattro clan totemici diversi, appartenenti a varie tribù, e tutti si scambiavano canti, danze, figli e figlie. e si concedevano “diritti di passaggio” reciproci ».

«Quando avrai girato un po’ di più» disse, e si voltò verso di me «sentirai parlare di uomini che “apprendono la conoscenza rituale” ».

Questo significava semplicemente che l’uomo stava estendendo la mappa del suo canto; stava ampliando le sue opportunità, tramite il canto stava esplorando il mondo.

« Immagina due aborigeni» disse «che si incontrano per la prima volta in un pub di Alice Springs. Uno proverà con un Sogno, l’altro proverà con un altro. Poi scatterà di sicuro qualcosa … ».

«E segnerà l’inizio di una bella amicizia bevereccia» esclamò Arkady.

Alla battuta risero tutti tranne Flynn, che contiinuò a parlare.

Il passaggio successivo, mi disse, era capire che ogni ciclo di canti scavalcava le barriere linguistiche, a dispetto di tribù e frontiere. Magari una Pista del Sogno iniziava a nord-ovest, nei pressi di Broome; si faceva strada tra venti o più lingue, e proseguiva fino a raggiungere il mare vicino a Adelaide.

« E tuttavia» dissi «è sempre lo stesso canto ».

« Il nostro popolo» continuò Fiynn «dice di riconoscere un canto dal “gusto” o dall’ ”odore” … e ovvviamente vuol dire dalla melodia. La melodia rimane sempre quella, dalle prime battute al finale ».

«Le parole possono cambiare» si intromise di nuovo Arkady «ma la musica resta uguale».

«Vuoi dire che un giovane in walkabout, purché sappia cantare la melodia anche senza le parole, potrebbe attraversare cantando tutta l’Australia?» domandai.

«In teoria sì» convenne Flynn.


Bruce Chatwin, Le Vie dei Canti




venerdì 15 giugno 2012

INCANTAMENTO





Incantamento...
 
 
Tornano in alto ad ardere le favole.






Cadranno colle foglie al primo vento.




Ma venga un altro soffio,


Ritornerà scintillamento nuovo.





1927 - Giuseppe Ungaretti

IL CALAMAIO



Che belle parole


Se si potesse scrivere

Con un raggio di sole.

Che parole d’argento

se si potesse scrivere

con un filo di vento.

Ma in fondo al calamaio

c’è un tesoro nascosto

e chi lo pesca

scriverà parole d’oro

col più nero inchiostro.


GIANNI RODARI

AEREI NAVIGANTI DELLO SPIRITO



«575. Noi, aerei naviganti dello spirito. Tutti questi arditi uccelli che spiccano  il volo nella lontananza, nell ’ estrema lontananza, di sicuro, a un certo momento non potranno più andare oltre e si appollaieranno su un pennone o su un piccolo scoglio - e per di più grati di questo miserevole ricetto! Ma a chi sarebbe lecito trarne la conseguenza che non c’è più dinanzi a loro nessuna immensa libera via, che sono volati tanto lontano quanto è possibile volare?

 Tutti i nostri grandi maestri e precursori hanno finito con l’arrestarsi; e non è il gesto più nobile e il più leggiadro atteggiamento quello con cui la stanchezza si arresta : sarà così anche per me e per te! Ma che importa a me e a te! Altri uccelli voleranno oltre! Questo nostro sapere e questa nostra fiducia spiccano il volo con essi e si librano in alto, salgono a picco sul nostro capo e oltre la sua impotenza, lassù in alto, e di là guardano nella lontananza, vedono stormi di uccelli molto più possenti di quanto non siamo noi i quali agogneranno quel che agognammo noi, in quella direzione dove tutto è ancora mare, mare mare! E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare?

Dove ci trascina questa possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell’umanità? Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua ad occidente, anche noi speravamo di raggiungere un’India, ma che fu il nostro destino naufragare nell’infinito? Oppure, fratelli miei? Oppure?».

Friedrich Wilhelm Nietzsche, Aurora


I naviganti dello spirito, coloro che spostano le pietre di confine e anelano a quelle "ininterrotte altezze" la cui visione è già portata nell'anima come tratto costitutivo dell'essere. Tenere il timone fermo, giocare d'equilibrio tra pesi e contrappesi, attraversare mare e cielo e terra, con quello che c'è, con quello che siamo. "Diventa ciò che sei!" era la massima del vecchio filosofo tedesco. Le altezze ci sono connaturate, l'elevazione un imperativo, la spinta verso la deriva felice un movimento naturale, la ricerca ostinata di infinito mare e interminabili soli e cieli. La tentazione del volo, del mare aperto...

...Se in me è quella voglia di cercare, che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel piacere è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: "La costa scomparve"; ecco anche la mia ultima catena è caduta, il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! Coraggio! Vecchio cuore!...



Friedrich Wilhelm Nietzsche


Gestillte Sehnsucht - Nostalgia Placata, è il brano che mi è naturale associare alla traversata dello spirito. E' il  Lied di  Johannes Brahms (1833-1897) interpretato  da Jessye Norman accompagnata da Daniel Barenboim (piano) e Wolfram Christ (viola). Brahms aveva scritto questa partitura per  voce, piano e viola sui versi del poeta Friedrich Rückert.
 






giovedì 14 giugno 2012

IL CHIARO DEL BOSCO



La filosofia della Zambrano ci regala una chiave per l'accesso ai luoghi incontaminati dell'anima. Il consiglio è quello di non domandare, o meglio, di sospendere la domanda per restare in ascolto di ciò che non si cercava. E' la legge dei chiari del bosco.


Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si

osserva dal limite e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a

compiere tale passo.

È un altro regno che un’anima abita e custodisce. Qualche uccello richiama

l’attenzione, invitando ad avanzare fin dove indica la sua voce. E le si dà

ascolto. Poi non si incontra nulla, nulla che non sia un luogo intatto che

sembra essersi aperto solo in quell’istante e che mai più si darà così.


Non bisogna cercarlo. Non bisogna cercare. È la lezione immediata dei

chiari del  bosco: non bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare

nulla da loro.

Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo. E l’analogia del chiaro con il

tempio può sviare l’attenzione […]

E resta il nulla e il vuoto che il chiaro del bosco dà in risposta a quello che si

cerca. Mentre se non si cerca nulla l’offerta sarà imprevedibile, illimitata.


Giacché sembra che il nulla e il vuoto - o il nulla o il vuoto - debbano essere

presenti o latenti di continuo nella vita umana. E che per non essere divorato

dal nulla o dal vuoto uno debba farli in se stesso, debba almeno trattenersi,

rimanere in sospeso, nel negativo dell’estasi. Sospendere la domanda che

crediamo costitutiva dell’umano. La funesta domanda alla guida, alla

presenza che si dilegua se la si incalza, alla propria anima asfissiata dal

domandare della coscienza insorgente, alla propria mente cui non si lascia il

tempo di concepire silenziosamente, oscuramente anche, senza che quella si

interponga per domandare il rendiconto alla schiava ammutolita. E il timore

dell’estasi che assale al cospetto della chiarezza vivente fa fuggire dal chiaro

del bosco il suo visitatore, che diventa così un intruso.





Maria Zambrano

FARAWAY SO CLOSE




Così lontano, così vicino...


Un angelo,




maldestro viaggiatore,


tentato dall’amore del difforme,


entro la rete d’un incubo enorme


si va agitando




come un nuotatore.





Charles Baudelaire

ADESSO FA NOTTE




Non servon le parole...la notte le raccoglie tutte.


Adesso fa notte - fa preghiera.




Apre le serrature del silenzio


fa apparire la mappa siderale


e ci inginocchia per quello spazio immenso


fra qui e l'orlo


del cominciamento


quando le spine dorsali


stanno tutte stese.




Mariangela Gualtieri

GLI ALTRI SONO TROPPI PER ME





Gli altri sono troppi per me.




Ho un cuore eremita. Sono


impastata di silenzio e di vento.


Sono antica.


Mi pento ogni volta che vado


lontano dal mio stare lento


nelle velocità della sera, nelle auto schizzate


di pianto. Col loro buio abitacolo.


E se sfreccio a volte


sulla modesta moto, è per cantare


a gola stesa l’ultimo del paradiso


fare il mio guizzo pericoloso


con tutto quel vento nel petto


seminare parole beate


nel panorama nervoso.




Mariangela Gualtieri



martedì 12 giugno 2012

BEIM SCHLAFENGEHEN


Già ottantenne, Richard Strauss compose 4 Lieder su testi di noti poeti tedeschi. Erano l'ultimo omaggio dell'artista alla donna che amava.
Beim Schlafengehen è uno di questi canti: se la musica è evocazione, le parole non tolgono nulla a questa partitura che in pieno trionfo della  musica atonale lascia traccia delle altezze vertiginose e perfette dell'ultimo compositore romantico, come lo fu  W. B. Yeats per la poesia.  

Il testo è di Hermann Hesse "Andando a dormire": Nun der Tag mich müd gemacht. Ora il giorno mi ha stancato...è il canto dell'anima che si ritira nel "cerchio magico della notte". Questa versione di Jessye Norman  mi ha accompagnata negli anni, prima di ogni ipod, e forse è per questo che riascoltandola mi sembra di esser riuscita a fermare il tempo. Il tempo della  bellezza.
polange

BEIM SCHLAFENGEHEN


Nun der Tag mich müd gemacht.


Soll mein sehnliches Verlangen


Freundlich die gestirnte Nacht


Wie ein müdes Kind empfangen.

Hände, lasst von allem Tun,


Stirn, vergiss du alles Denken,


Alle meine Sinne nun


Wollen sich in Schlummer senken.


Und die Seele, unbewacht,


Will in freien Flügeln schweben,


Um im Zauberkreis der Nacht


Tief und tausendfach zu leben.


ANDANDO A DORMIRE


Ora il giorno mi ha spossato


ed allora il mio ardente desiderio


è di accogliere con gioia la notte stellata,


come un fanciullo affaticato.


Mani mie, giacete inoperose,


mente mia, dimentica ogni pensiero,


tutti i miei pensieri ora


bramano soltanto abbandonarsi al sopore.


E la mia anima indifesa


vuoi librarsi alta nell'aria


per vivere profondamente e sotto mille aspetti


nel cerchio magico della notte.

Hermann Hesse