lunedì 9 aprile 2012

Smemorati digitali: la rete ci ha cambiato la testa?


La memoria è il tesoro dell’anima dice un vecchio detto italiano. Vale ancora per noi che abitiamo un mondo “liquido” a forma di reticolato a maglie strette sul quale scorrono come su un rullo continuo informazioni, relazioni, connessioni, in una infinita marea di dati condensati in immagini, video, testi?


La memoria odierna si misura in megabytes e gigabytes ed è dotazione necessaria di iPod, iPad, hard disks, e-books, e tutte quelle meraviglie tecnologiche che fanno da corredo indispensabile alla nostra esistenza e ci aiutano a restare in contatto con tutto e con tutti in ogni luogo. Everybody, everytime, everywhere.



Ma è tutto così meraviglioso e noi siamo così felici in questa Rete virtuale che sconfina incessantemente nella nostra dimensione reale e ad essa si sovrappone? Non è che invece di acquistare discernimento ci siamo lanciati alla conquista del rimbambimento? O peggio della cancellazione della nostra memoria storica personale e collettiva in una continua “distrazione” a colpi di click e links? Le mie foto da bambina sono tutte in un cassetto da decenni; le mie foto di due anni fa sono andate perse con la rottura accidentale di un hard disk da 500 giga e con esse gran parte dei miei documenti degli ultimi tre anni.

La volatilità e la vulnerabilità dei nostri dati, dalle foto di famiglia ai segreti bancari fino ai top-secret di una nazione sono un problema reale e lo è ancora di più quello della conservazione del patrimonio culturale delle civiltà. Intere biblioteche oggi sono state sostituite da sistemi digitali.

Eppure il manoscritto più antico risale all’868 d.C. in Cina. I supporti digitali diventano presto obsoleti (chi usa ancora il floppy disk?) e nessuno sa con precisione stabilire quanto può durare un Cd o un Dvd, se anni, decenni, secoli o millenni. La presenza di Internet poi, ha mutato profondamente, radicalmente, la storia dell’umanità proprio come un tempo fecero l’introduzione dell’alfabeto, la scrittura, poi la stampa di Gutenberg e nel Novecento la televisione. Socrate tuonava contro la scrittura, il nuovo mezzo di comunicazione del suo tempo, poiché questa non permetteva domande ma solo discorsi a senso unico che avrebbero diminuito la capacità di pensiero critico e avrebbero oltretutto danneggiato la memoria intesa come sapere che ciascuno porta con sé. Eppure, tutto ciò che sappiamo del pensiero di Socrate è giunto fino a noi perché Platone lo ha scritto.

Ogni epoca ha il suo mezzo privilegiato di comunicazione lodato e odiato. Nessun passaggio è senza pericoli, nessuna trasformazione avviene senza perdite e senza guadagni. Ad ogni innovazione corrisponde inevitabilmente una riprogrammazione della struttura del nostro cervello anche a livello cellulare.

Qualche anno fa uno studioso della Harvard Business Review, Nicholas Carr, scrisse un articolo provocatorio: “Google ci sta rendendo stupidi?” Oltre a fare il giro del mondo lo scritto suscitò una serie di polemiche. Oggi, Carr torna con un altro saggio da poco tradotto in Italia: “Superficialità: quello che Internet sta facendo alla nostra mente”.

Alla mole incalcolabile di informazioni a disposizione non corrisponde una maggiore intelligenza diffusa, anzi, si contrappongono con evidenza: perdita di memoria individuale nel lungo periodo, difficoltà di concentrazione, superficialità nel “navigare” da un link all’altro senza soffermarsi sulla riflessione, sulla sedimentazione del sapere, senza dare il via all’elaborazione del pensiero. Inoltre, Google ci dà solo l’impressione di interrogare lì dove in realtà crea algoritmi che ci forniscono risultati collegati al mercato pubblicitario o alla frequenza delle richieste, ma non certo alla risposta “intelligente”. Google, Facebook e simili, offrono servizi apparentemente gratuiti per poi direzionare le nostre scelte in un modo predefinito lasciandoci l’illusione di avere opzioni di scelta e libertà di azione. Forse aveva ragione il filosofo francese Blaise Pascal quando nel XVII secolo scriveva che tutta l’infelicità dell’uomo derivava dal non sapersene stare da solo chiuso in una stanza.

Angela Poli






















Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.