domenica 3 febbraio 2013

CROOKED HEARTS


«Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l' uno dall'altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. E' allora evidente che l' anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio»

Platone, Simposio





Di cosa parliamo quando parliamo d'amore? Cos'è? E' dunque filosofia, poesia, biologia? W.H. Auden ha scritto un'ironica e ben nota poesia, R.M. Rilke, che  detestava i versi d'amore, ha scritto i più belli per Lou Andreas-Salomè. Platone sosteneva che  l’amore è follìa, come la profezia, l’iniziazione e la poesia.  Con Platone, Eros è figlio  di Pòros e Penìa, cioè di un dio e di una mortale mendicante. Esso è il prodotto di   una divinità e di Povertà.  Si  configura sempre come una richiesta, un desiderio e una privazione. 
Platone ne parla come desiderio di qualcosa che non si possiede e di cui si va quindi in cerca: così è la filosofia.  L’amore è lungo quanto il desiderio, è assenza, lacerazione, sguardo sul taglio e cura, ricerca del compimento di sé e costruzione di sé. Scalzo e senza tetto, manca di tutto e tutto cerca. E' etimologicamente "a-mors", privazione della morte, travalicamento della morte e  condizione indispensabile per l’attivazione della mente, strada maestra alla conoscenza; si dice infatti, che non "intratur in veritatem nisi per caritatem”, non si accede alla verità, se non attraverso un contesto d'amore. Per Freud, l’amore è una follìa di breve durata, ma cambia il mondo. In questo senso, amare una persona è generativo di un’altra persona, di un altro io. Quando finisce una storia d’amore, collassa l'io e si ridefinisce il suo perimetro. Si diventa  persone diverse da ciò che si era in principio.

Da questo "fondo enigmatico e buio"  mi permetto di estrarre i pensieri più folgoranti, ben conscia che forse, la sola verità possibile da sommare alla divinazione platonica è quella di W.H. Auden: 

You shall love your crooked neighbour / with your crooked heart. 
Tu amerai il prossimo tuo storto, con il tuo storto cuore. 

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Spegnimi gli occhi: io ti vedrò lo stesso,

sigilla le mie orecchie: io potrò udirti,

e senza piedi ti cammino ancora a fianco.

E senza bocca posso ancora chiamarti.

Spezza le mie braccia e io ti abbraccerò

Col mio cuore che si è fatto mano,

arresta i battiti del mio cuore, sarà il cervello

a pulsare e se lo getti alle fiamme

io ti porterò nel flusso del mio sangue.


(1897) Rainer Maria Rilke




W.H. Auden: "La verità, vi prego, sull'amore..."
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore
Alcuni dicono che l’amore è un bambino
e alcuni che è un uccello
alcuni dicono che fa girare il mondo
e altri che è solo un’assurdità,
e quando ho chiesto cosa fosse al mio vicino
sua moglie si è seccata e ha detto
che non era il caso di fare queste domande.
Può assomigliare a un pigiama
o a del salame piccante dove non c’è da bere?
Per l’odore può ricordare un lama
o avrà un profumo consolante?
È pungente a toccarlo, come un pruno,
o lieve come morbido piumino?
È tagliente o ha gli orli lisci e soffici?
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore.

I libri di storia ne parlano
solo in piccole note a fondo pagina,
ma è un argomento molto comune
a bordo delle navi da crociera;
ho trovato che vi si accenna nelle
cronache dei suicidi,
e l’ho visto persino scribacchiato
sulle copertine degli orari ferroviari.

Ha il latrato di un cane affamato
o fa il fracasso di una banda militare?
Si può farne una buona imitazione
con una sega o con un pianoforte Steinway da concerto?
Quando canta alle feste, è un finimondo?
O apprezzerà soltanto musica classica?
La smetterà quando si vuole un po’ di pace?
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore.

L’ho cercato nei chioschi del giardino
ma lì non c’era mai stato:
ho anche esplorato le rive del Tamigi
e l’aria balsamica delle terme.
Non so cosa cantasse il merlo
o che cosa dicesse il tulipano,
ma certo non era nel pollaio
e nemmeno sotto il letto.

Sa fare delle smorfie straordinarie?
Sull’altalena soffre di vertigini?
Passerà tutto il suo tempo alle corse,
o strimpellando corde sbrindellate?
Avrà idee personali sul denaro?
È un buon cittadino o mica tanto?
Ne racconta di allegre, anche se un po’ audaci?
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore.

Quando viene, verrà senza avvisare,
proprio mentre mi sto grattando il naso?
Busserà la mattina alla mia porta,
o là sull’autobus mi pesterà un piede?
Arriverà come il cambiamento improvviso del tempo?
Sarà cortese o spiccio il suo saluto?
Darà una svolta a tutta la mia vita?
Ditemi la verità, vi prego, sull’amore.






Umberto Galimberti: Non siamo padroni di dire ti amo
Tratto da "la Repubblica", 30 agosto 2003


«Se io ti do il mio amore, che cosa ti sto dando di preciso? Chi è l' io che sta facendo questa offerta? E chi, per inciso, sei tu?» si domanda lo psicanalista americano Stephen Mitchell nel suo ultimo libro: L' amore può durare?. La domanda non è retorica. Segna piuttosto un ribaltamento radicale circa il modo di considerare         l' amore,quasi sempre pensato come qualcosa in possesso dell' io, qualcosa di cui        l' io può disporre. Per questo nessuno crede fino in fondo all' altro quando dice:«Io ti amo». Amore non è una faccenda dell' io.

 L' ultimo a ricordarcelo, in ordine di tempo, è stato Freud quando ha detto che «l' io non è padrone in casa propria», perché inconsce sono le forze che determinano quelle che l' io considera sue scelte. Prima di Freud queste cose le aveva dette Nietzsche, da cui Freud, su suggerimento del suo amico Georg Groddeck,  preleva il termine Es.   Non "io penso", ma "esso pensa". Che se l' io non è padrone  dei suoi pensieri come può essere padrone dei suoi amori? 

Ma prima di Freud e prima di Nietzsche queste cose le aveva pensate Schopenhauer che Nietzsche considera suo "educatore" e Freud suo "precursore". Per Schopenhauer in ciascuno di noi confliggono due vite: quella della specie e quella dell' individuo, che proprio nelle vicende d' amore trovano la loro contaminazione. 

«Il soggetto del gran sogno della vita - scrive Schopenhauer -è in un certo senso uno soltanto: la volontà di vivere». Questa volontà, che è irrazionale perché non tende ad altro scopo se non alla propria perpetuazione,inganna i singoli individui con le lusinghe d' amore. Questi credono di essere i soggetti della loro vicenda erotica, in realtà sono solo strumenti che la specie utilizza per la propria conservazione. Non siamo noi i soggetti della nostra esperienza erotica, ma forze oscure e impersonali con cui la specie raggiunge i suoi scopi. Ma prima di Freud, prima di Nietzsche, prima di Schopenhauer, queste cose le aveva dette Platone che, nel Simposio, ci dà forse la lettura più profonda che in Occidente sia mai stata fatta sulle cose d'amore.

 Scrive Platone: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l' uno dall'altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. è allora evidente che l' anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio». 

Guardando «le cose d' amore» o, come dice il testo greco i ta aphrodisia, Platone ci chiede che cosa con esse l' anima riesce o non riesce a dire. E dove il dire si interrompe e la regola non basta a portare la parola a espressione si apre lo sfondo buio del presagio e dell' enigma. Amore appartiene all'enigma e l' enigma alla follia.

 Nell'edificare il cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, Platone non chiude l'abisso della follia, ma lo riconosce come minaccia e dono, come sede di parole incontrollabili, come dimora degli dèi, perciò nel Fedro può dire: «I beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino». E ancora:«La follia dal Dio proveniente è assai più bella della saggezza d' origine umana». 

Ma chi sono gli dèi? Sono gli abitanti di quel mondo che sta prima dell' umana ragione e che offre alla ragione i contenuti da ordinare in una produzione compiuta di senso. Di questo mondo ha conoscenza Socrate, che non considera la ragione da lui inaugurata nella sola prospettiva dell' ordine a cui contribuisce. Sa infatti da quale caos l' ha evocata, da quale abisso l' ha chiamata fuori. Un giorno una donna ha insegnato a lui, che non sa niente, quell'unica cosa che sa: la scienza delle cose d' amore. «Vi assicuro che di nulla ho sapere, se non delle cose d' amore. Amore è un demone possente che sta tra gli uomini e gli dèi». 
Dunque non una vicenda tra uomini, ma tra l' umano e quello sfondo pre-umano abitato indifferentemente dagli animali e dagli dèi. Proiezioni antropologiche di istinti e pulsioni che l' io razionale «patisce» e perciò legge come «altro da sé». 

Gli dèi infatti sono dentro di noi e la loro follia ci abita. Per questo l' amore di cui parla Socrate non ha la forma di un sentimento umano, ma quella più inquietante della possessione (katokoché) di un dio. L' entusiasmo che genera, lungi dall' essere un sentimento di esuberanza o di particolare eccitazione, dice che l' uomo, in quella circostanza è abitato da un dio, ha dentro di sé un dio (en-theos), per cui non è l' io razionale a proferir parola, ma il dio che lo possiede. Quanto basta per farci capire che,in presenza di amore, l' io razionale subisce una dislocazione (atopia, dice Socrate in riferimento alla sua malattia) che dis-loca la nostra riflessione, e ci obbliga a pensare a partire da amore, e non dall' io che inaugura una storia d' amore. 

Amore, infatti, non è qualcosa di cui l' io dispone, ma semmai è qualcosa che dispone dell' io, qualcosa che lo incrina, che lo apre alla crisi,che lo toglie dal centro della sua egoità, dall' ordine delle sue connessioni per nessi di tutt' altro genere e forma e qualità. Per questo Socrate, a proposito delle cose d' amore, parla di possessione, di katokoché

Figlio di povertà (penia), «Amore - riferisce Socrate - non è affatto delicato e bello,come per lo più si crede; bensì duro, ispido, scalzo, senza tetto; giace per terra sempre, e nulla possiede per coprirsi; riposa dormendo sotto l' aperto cielo, nelle vie e presso le porte. Insomma riferisce chiaramente la natura di sua madre, dimorando sempre insieme con povertà». 

Ma Amore è anche figlio di Poros, la via, il passaggio, il guado. E perciò concede alla follia che ci abita il suo transito. Questa, irrompendo nell' ordine dei significati che l'io razionale ha costruito per espellerla, produce quel controsenso che denunciala maschera eretta sull' elusione della follia. E qui la direzione del discorso si lascia intuire: Amore non è godimento di corpi, Amore è molto di più. Occupando «il posto intermedio tra l' uno e l' altro estremo», Amore si fa interprete (ermeneuei) tra la ragione che l' uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita. Non quindi un rapporto tra uomini come si è soliti credere, ma tra la parte razionale dell' uomo e la sua parte folle o divina. 

Ma che ne è dell' io e dell' altra parte di sé quando Amore li accoglie? Che ne è dell'uomo e del dio quando Amore li interpreta? Se Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto con l' altro, quanto una relazione con l'altra parte di noi stessi, quindi un cedimento dell' io per liberare in parte la follia che lo abita, Amore ha a che fare con quei limiti ontologici che sono per l' esistenza la nascita e la morte. Morte dell' io per dissoluzione dei suoi confini, sua rinascita in nuove configurazioni. 

Questa oscillazione, che ogni atto d' amore porta con sé, ha bisogno della presenza dell' altro come memoria della realtà che si lascia e come possibilità di ritorno dal mondo estraneo a cui ci si è concessi nella dissolvenza dell' io. L' avvinghiarsi al corpo dell' altro, prima di un contatto, è dunque una presa.

 Per il solo fatto di esserci accanto, l' altro ci concede di perderci nella nostra follia e di riprenderci. Assistendo al cedimento del nostro io, con la sua presenza, come la levatrice durante il parto, l' altro aiuta la nostra nascita. C' è infatti in Amore un' intenzione generativa, dice Socrate: «Porta fuori quel fondo nascosto di cui ciascuno è gravido ponendo fine alle doglie». Ma questo avviene dopo l' esperienza della morte (di cui l' orgasmo è la simulazione) che ci strappa dalla nostra ostinazione a veder durare quell'io che noi siamo. 

Se ci portiamo all'origine possiamo ricostruire le parole e le scene, rivedere il contrasto tra uomini e dèi, le ferite inferte e le cure concesse. «L' antica nostra natura non era la medesima di oggi» riferisce Platone. In principio gli uomini erano l' uno e l' altro (amphoteroi), la loro forma era circolare, il loro aspetto intero e rotondo, «non generavano per reciproca unione, ma per unione con la terra». Un giorno «Zeus, volendo castigare l' uomo senza distruggerlo lo tagliò in due». Da allora «ciascuno di noi è il simbolo di un uomo», la metà che cerca l' altra metà, il simbolo corrispondente. Per curare l' «antica ferita», Zeus, dopo averla inflitta, inviò Amore «fra gli dèi l'amico degli uomini, il medico, colui che riconduce all'antica condizione. Cercando di far uno ciò che è due, Amore cerca di medicare l' umana natura». [...] 

Mediatore tra gli uomini e gli dèi, Amore interviene al limite dell' umano, laddove il fondo non-storico, da cui la nostra storia ha preso avvio, ancora ci possiede come follia rimossa. Chi tocca questa follia ci affascina e ci induce a quel progressivo cedimento di noi stessi che rende possibile la liberazione di quella follia di cui si contorna Amore, dove il senso gioca col non-senso e dove non si dà nuova parola se non liberando a ogni istante l' antica follia. 
Così Platone erge Amore a simbolo della condizione dell' uomo «a cui però non è concesso distogliere l' occhio dal proprio taglio». 

E questa è la ragione per cui Amore non è solo vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta.









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