martedì 27 novembre 2012

PENSIERI A MARGINE


Si legge, ci si incrocia per riconoscersi e si lascia tracimare il senso:


Mettere a tema un giorno sì e uno no la propria integrità, lavorare su di sé, darsi compiti e fini. Scongiurare l’atarassia. Eludere la noncuranza e l’indifferenza. Gli spettri dell’anima. Le atonie del cuore.

Oscillare tra i due partiti presi della resistenza senza compimento: l’accidia, cioè il rifiuto di spendersi e l’omissione in luogo dell’azione e, dall’altro verso, l’ “inquietudo corporis”, il muoversi a vuoto, senza mai trovare un “ubi consistam”, un luogo in cui davvero dimorare restando se stessi.

Forse necessitiamo di più filosofia e meno psicologia, bisognerebbe ripartire dai Greci, ricominciare da una prospettiva antica e moderna al tempo stesso. In ogni istante mettersi in pace con se stessi, il vero punto di resistenza all’accadere e all’essere è in fondo, tentare un equilibrio mai rassegnazione di qualcosa. Ripartire dall’idea che dobbiamo riconoscere che sì, siamo una potenza finita, un destino limite devoluti all’infinito del desiderio.  Non ci è concesso di essere più di quel che siamo e di quel che possiamo.  Sia l’accidia che la “instabilitas” sono rinunce e in ogni caso manchiamo, manchiamo sempre all’appello di noi stessi.  Soltanto nel movimento vi è progresso, nello scarto felice dell’inaspettato, nel frammento scagliato in alto, più in alto possibile, ma secondo l’etica del pensiero greco è necessario “farsi misura di se stessi”, convertirsi a sé, trasformare l’atto in significato. Restare attaccati alla terra così come Nietzsche raccomandava. Restare presso di sé. In solitudine auscultare le proprie metamorfosi, rammendare le lacerazioni e le mancanze, impunturare i vuoti. Non serve prendere la fuga, non serve coltivare un io grandioso, non serve gettare la spugna, l’etica del possibile è la sola immaginabile, è fatta dal nostro nome e porta il nostro viso e dice “io sono”. Essere lì dove si è.  Abitare la nostra finitezza ci salva dalla felicità degli stupidi, fatta di rimozione della sofferenza  e senza sofferenza non vi è mai vero godimento. Permanere è il nostro compito, quando tutto intorno a noi si muove e nulla resta mai lo stesso, e tutto è terribilmente complicato, permanere, pesarsi, erigere la nostra tenda lì dove si è. Chi gira a vuoto non sa dove si trova, chi resta nel rifiuto e nell’accidia non incrocia mai sé stesso.  Come si fa? Ecco la risposta di un filosofo della contemporaneità:
“Da soli.  Ci deve essere un punto e un momento da cui cominciare. E da dove se non da noi? Bisogna disfarsi degli alibi, bisogna afferrare il proprio limite e mantenersi entro questo confine. Per fare questo è opportuno agire un po’ di meno e pensare di più. Stare presso di sé. Non se ne ha la pazienza. Si crede di stare meglio se si sfugge ai problemi: al contrario, l’uomo trarrebbe maggior vantaggio se divenisse capace di ciò che Seneca chiamava la “conversio ad se”, se si raccogliesse per computare la propria potenza, acquisire competenza del suo desiderio e padroneggiarsi. Quanto valgo, cosa posso presumere per me senza cadere nella presunzione: cosa posso davvero. E su questa base agire o ritirarsi. Così Seneca scriveva a Lucilio: “Disce gaudere, impara a godere…desidero che non ti manchi mai la gioia, anzi, che ti nasca in casa; e nascerà purchè essa sia entro te stesso…essa non ti verrà mai meno, una volta che ne avrai trovato la sorgente…Mira al vero bene e gioisci di ciò che ti appartiene”. (S. Natoli)

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