AD OCCHI APERTI di ANGELA POLI
"Sai qual è il bello dei cuori infranti?" domandò la bibliotecaria.
Scossi la testa.
"Che possono rompersi davvero soltanto una volta. Il resto sono graffi."
Carlo Ruiz Zafòn da Il gioco dell'angelo, 2008 atto secondo - Lux Aeterna -
Questa immagine è ciò che ho visto per lunghi anni, appesa al muro della mia stanza da bambina e da studentessa: incendio luna piena di Paul Klee. Intorno, alle altre pareti, un immancabile ritratto di Che Guevara, uno di Virginia Woolf e una foto d'autore in bianco e nero di donna con gatto. Emily Bronte era una delle mie letture frequenti, questa poesia era mia.
E' ancora Pessoa, un'altra delle sue voci poetanti, Riccardo Reis. A che serve sapere? Tanto si passa. Conta solo il qui e l'ora. Tutto dura il tempo della danza. Ma quanto diverso è il paesaggio di chi fa sublime l'imperfezione, di chi compie proprio il gesto opposto, conoscere e attraversare, e poi se ne distacca, per un momento che è dimenticare, dimenticarsi, ritornare ad esser senza misura, confondersi con tutto ciò che scorre. Liberi. Leggeri.
Questi passaggi del mattino, "Morning Passages" come questo brano di Philip Glass tratto da The Hours, uno dei miei film più amati. Arcani corpi in perenne movimento che attraversano lo spazio celeste e generano vita soltanto abbattendosi su altra materia...il loro tempo è quello di un volo. E' vero. La cometa, questa cometa, sono io...la cometa siamo noi....
polange
…Come cometa non ho una grande magnitudo, ma sono feconda, sperma celeste, ovulo celeste, femminile-maschile qui non conta, mi chiameranno Anita, sarebbe adeguato, piccola Anna, meglio Anita che un impronunciabile nome giapponese o la numerazione dei corpi celesti, tanto i nomi non contano niente, coi nomi non si prende niente, non prenderanno nulla di me, non ho spiegazioni, non ho volontà, non ho finalità.
Come cometa sono soltanto violenza vitalità e catastrofe, astro disastro, la buona stella o la stella discorde, vengo dalla zona di chi è stato tagliato fuori, dalla zona estrema dei corpi non nati, trascurati dalla generazione, troppo lontani dal sole al momento in cui tutto si generava per collisione e conflitto, e in quella nube sono rimasta interdetta e confinata, nube di Oort, sono rimasta lì ai margini, pianeta mancato, gravida di materia originaria e schegge schizzate da ciò che si andava creando e deflagrando, come cometa sono feconda, porto ciò che chiamano vita, ma per fecondare devo distruggermi, abbattermi su un corpo e penetrarlo rovinosamente, lacerandomi-lacerandolo, mescolando i miei liquidi, acqua e ghiacci, alla sua aridità.
Fra un milione d’anni può darsi, fra un milione di probabilità, magari mai più. Come cometa sono un viaggiatore perenne, periodico, ad ogni periodo perdo qualcosa, ad ogni periodo orbitale mi assottiglio col sole, come cometa non sono niente, se non i nomi e le motivazioni che mi danno al passaggio, non ho volontà, non ho spiegazioni, non ho alcun fine, non ho memoria, ogni volta è una novità, come cometa, mentre mi osservano, me ne sto andando…
Bello il gesto dell'offrire, è solo così che ci si sente più ricchi. Conoscevo questi versi, per una strana coincidenza erano tra quelli che avevo in mente di condividere. Arrivano al momento giusto, questo blog è "casa" loro e casa nostra.
Comincia così questa giornata di primavera, con la sorpresa di latitudini invisibili che abbracciano da lontano. Queste le prime parole che mi sono giunte stamattina:
Guai a chi non pratica la propria purezza con ferocia.
Se mai vedrò un’altra primavera pungente commento al mio passato tutto ridotto a un “se” – se mai vedrò un’altra primavera riderò oggi, l’oggi è così breve, nulla aspetterò: userò l’oggi che non può durare sarò contenta oggi e canterò.
La prima volta che mi hanno declamato questi versi si è acceso il sole all'improvviso. Un bagliore. Eppure era piena estate e c'era mare e spiaggia e luce. Nella loro semplicità e levità forse non bastano alla scrittura, essi chiedono la voce che li incarni e l'orecchio che li ascolti. Li ho cercati a lungo senza trovarli, ora eccoli qua, sono arrivati.
polange
Il tuo nome non è entrato in nessuna enciclopedia, non sei in nessuna, non ti chiedono: "Chi sei".
Tu sei tutto per me, come per un soldato il letto nel primo giorno di pace e le lacrime e i fiori nel vaso.
I tuoi occhi sono la mia unica lettura in questo giorno che passa e se ne va.
Quello che dai lo porti via con te...è questo il senso del porgere.
Quando si riceve è più difficile, almeno per me, nessun grazie sembra bastare. E allora taccio rischiando l'insensibilità. Il dono equivale all'essere ricordati, così la scrittura, un gesto bello e gentile, come versare vino in un bicchiere lontano.
A volte succedono cose strane un incontro un sospiro un alito di vento che suggerisce nuove avventure della mente e del cuore. Il resto arriva da solo nell’intimità dei misteri del mondo.
La letteratura inglese non ha nulla di più gioioso e vibrante per rappresentare la piena comunione con la Natura vissuta come stupore ed esperienza consacrata dalla memoria, l' "inner eye" del quale scrive Wordsworth, ovvero, l'occhio interiore che fa danzare a volontà quegli steli dorati...
polange
Vagavo da solo come una nuvola
che fluttua in alto sopra valli e colline,
quando d’un tratto vidi una folla,
una moltitudine di asfodeli dorati;
accanto al lago, sotto gli alberi,
ondeggiavano e danzavano nella brezza.
Continui come le stelle che brillano
e scintillano nella Via Lattea,
si stendevano in una linea senza fine
lungo il margine di una baia;
diecimila ne vidi ad un’occhiata,
agitare la testa in una danza gioiosa.
Danzavano le onde lì accanto; ma loro
ne superavano in splendore lo sfavillìo;
un poeta non poteva che esser felice
in una compagnia così allegra.
Io Fissavo – e fissavo – senza ancora sapere
quale ricchezza mi avrebbe dato quella visione:
poiché spesso, quando mi sdraio sul letto
con l’animo vuoto o pensieroso,
essi mi balenano in quell’occhio interiore
che è la gioia della solitudine;
e allora il mio cuore si colma di piacere
e danza insieme agli asfodeli.
...And then my heart with pleasure fills,
And dances with the daffodils.
WILLIAM WORDSWORTH
La musicalità dei versi che seguono il movimento dei fiori mossi dal vento, lo sguardo che ondeggia e il ricordo che danza e fa danzare narcisi e cuore all'unisono con l'immagine impressa è imperdibile nel testo originale... il video ne esprime bene l'essenza...
Albert Camus, l'uomo orientato a mezzogiorno, che ragionava del dritto e del rovescio di ogni cosa, delle solitudini del mare e della consistenza della sabbia sulle spiagge di Orano e dell'esistere, concluse così il suo primo Carnet, era il 1942:
Leggere libri sacri dà a volte la sorpresa di trovare se stessi in certi versi. Allora ci si sente raggiunti come d'estate dal frammento di cometa che s'incedia proprio davanti ai nostri occhi spalancati nel buio.
Qualcosa del genere su scala minore avviene con le opere della letteratura. Cerco nei libri la lettera, anche solo la frase che è stata scritta per me e che perciò sottolineo, ricopio, estraggo e porto via. Non mi basta che il libro sia avvincente, celebrato, nè che sia un classico: se non sono anch'io un pezzo dell'idiota di Dostoevskij, la mia lettura è vana.
Perchè il libro, anche il sacro, appartiene a chi lo legge e non per il diritto ottenuto con l'acquisto. Perchè ogni lettore pretende che in un rotolo di libro ci sia qualcosa scritto su di lui.
Classe 1985, Melody Gardot, una delle nuove promesse del jazz internazionale, aspetto da diva della nouvelle vague, bionda, occhiali neri e bastone, musica magica, ipnotica per toni soffusi e vibrazioni. Tre cd e una storia da far venire i brividi al cuore della sua musica, come recita il suo sito ufficiale. Il suo nome viene affiancato dalla critica a quello di Norah Jones, Madeleine Peyroux, Diana Krall, in una ideale linea di continuità tracciata dal passato d’oro delle figure femminili del jazz caldo, quello delle atmosfere intense e rarefatte che sconfinavano nel blues.
Nasce a Philadelphia col nome di Maureen Clegg e coltiva indefinite ambizioni da pittrice, ma a 19 anni un incidente le cambia la vita. Ad un incrocio un Suv passa col rosso e la investe in pieno mentre attraversa in bicicletta. Coma farmacologico, fratture multiple dappertutto, danni neurologici. Dopo un anno di dura riabilitazione un medico (il dodicesimo) le propone la musicoterapia per recuperare la parola, per stimolare il cervello e alleviare il dolore. Così lei impara a suonare la chitarra e si avvicina, ancora muta, al canto. Nasce Melody Gardot. Di casi analoghi si racconta nel bel libro di Oliver Sacks, neurologo inglese e fondatore dell’ Institute for Music and Neurologic Function in America. In Musicophilia egli dedica circa 400 pagine alle formidabili interazioni tra musica e mente aprendo enormi prospettive sulle applicazioni che i suoni possono avere in medicina, soprattutto in neurologia. Melody Gardot registra il primo album in un letto d’ospedale nel 2005, Some Lessons: The Bedroom Sessions, una radio locale ne manda in onda alcuni pezzi, l’Universal la scopre ed è il lancio. Worrisome Heart (2008) è il suo secondo cd, My One and Only Thrill (2009) il terzo e super premiato e a breve, il 28 maggio uscirà The Absence con contaminazioni provenienti dal Portogallo, Brasile, Buenos Aires. Oggi, 27 anni, diva e musicista per caso, Melody Gardot viaggia con il suo fisioterapista, si accompagna con un bastone che la rende ancora più bella, è ancora sensibile alla luce, il suo udito non è perfetto e la sua memoria è andata con l’amnesia retrograda della quale soffre, ma è felice di comporre musica e cantare poiché questa è la sua cura, questo è il suo dono a se stessa e al mondo.
Dono gradito questa poesia ancora del portoghese Pessoa, da leggere ascoltando le note quasi allegre di Yann Tiersen. Il tema in qualche modo segue il fil rouge della bellezza esistenziale che è amor di sé e riconoscimento dell'Altro. Bella questa traduzione che ne esalta i passaggi e lo stupore finale... il muro da sormontare è sempre nella testa.
polange
EROS E PSICHE
…Così vedete, Fratello mio, che le verità che vi
Furono rivelate nel Grado di Neofita e quelle che vi furono rivelate nel
Grado di Adepto Minore, sono benché opposte, la stessa Verità.
Dal Rituale del Grado di Maestro d’Atrio Dell’Ordine Templare del Portogallo
L'analisi semiologica di un viso può tradursi in sguardo poetico quando a scrivere è Roland Barthes, il pensatore e critico francese noto per i suoi "Miti d'oggi" e il suo amore per il Giappone trascritto nel saggio "L'impero dei Segni". La poesia di questo brano consiste nell'abilità di decifrare un volto che appartiene all'immaginario collettivo declinabile al passato, ormai, impresso su fotogramma a segnare il momento di transito fugace dell'Astratto e dell'Idea, della bellezza incorruttibile, verso più bassi contorni, più appetibili alle masse. Ci sembra anni luce distante da questo 2012 questo volto etereo che abbiamo disimparato a leggere. Forse non c'è molta bellezza intorno, forse se ne è persa la grammatica.
polange
La Garbo appartiene ancora a quel momento del cinema in cui la sola cattura del viso umano provocava nelle folle il massimo turbamento, in cui ci si perdeva letteralmente in un'immagine umana come in un filtro, in cui il viso costituiva una specie di stato assoluto della carne che non si poteva raggiungere né abbandonare. Alcuni anni prima, il viso di Rodolfo Valentino provocava dei suicidi; quello della Garbo partecipa ancora del medesimo regno di amore cortese in cui la carne sviluppa mistici sentimenti di perdizione.
È senza dubbio un mirabile viso-oggetto; nella «Regina Cristina», che recentemente abbiamo rivisto a Parigi, il cerone ha lo spessore nevoso di una maschera; non è un viso dipinto, è un viso intonacato, difeso dalla superficie del colore e non dalle sue linee; in tutta questa neve, fragile e insieme compatta, solo gli occhi, neri come una polpa bizzarra, ma nient'affatto espressivi, sono due lividure un po' tremanti. Anche nell'estrema bellezza, questo viso non disegnato ma scolpito in una materia liscia e friabile, cioè perfetto ed effimero ad un tempo, raggiunge la faccia infarinata di Charlot, i suoi occhi di triste vegetale, il suo viso di totem.
Ora la tentazione della maschera totale (la maschera antica, per esempio) implica forse meno il tema del segreto (come è il caso delle mascherine italiane) che non quello di un archetipo del viso umano. La Garbo offriva una specie di idea platonica della creatura, e ciò appunto spiega come il suo viso sia quasi asessuato, senza per questo essere equivoco. È vero che il film (la regina Cristina è di volta in volta donna e giovane cavaliere) favorisce questa indistinzione; ma la Garbo non si impegna in nessun esercizio di travestimento; è sempre se stessa, sotto la corona o sotto i grandi feltri abbassati porta senza finzione lo stesso viso di neve e di solitudine. Il suo appellativo di Divina mirava indubbiamente a rendere, più che uno stato superlativo di bellezza, l'essenza della sua persona corporea, scesa da un cielo dove le cose sono formate e finite nella massima chiarezza. Lei stessa lo sapeva...
Tuttavia, in questo viso deificato, si disegna qualcosa di più pungente di una maschera: una specie di rapporto volontario e perciò umano tra la curva delle narici e l'arco delle sopracciglia, una funzione rara, individuale, fra due zone del volto; la maschera è solo una somma di linee, il viso invece è soprattutto richiamo tematico delle une alle altre. Il viso della Garbo rappresenta quel momento fragile in cui il cinema sta per estrarre una bellezza esistenziale da una bellezza essenziale, l'archetipo sta per inflettersi verso il fascino dei visi corruttibili, la chiarezza delle essenze carnali sta per far posto a una lirica della donna.
Come momento di transizione, il viso della Garbo concilia due età iconografiche, assicura il passaggio dallo spavento al fascino. Oggi, è noto, siamo all'altro polo di questa evoluzione: il viso di Audrey Hepburn, per esempio, è individualizzato non solo nella sua tematica particolare (donna-bambina, donna-gatta), ma anche dalla sua persona, da una specificazione quasi unica del viso, che non ha più nulla di essenziale ma è costituito da una complessità infinita delle funzioni morfologiche. Come linguaggio, la singolarità della Garbo era di ordine concettuale, quella di Audrey Hepburn è di ordine sostanziale. Il viso della Garbo è Idea, quello della Hepburn è Evento.
Ogni tempo ha il suo timbro e la sua voce. Dopo molti anni mi trovo a sfogliare di nuovo le pagine del portoghese che si struggeva di infinito e nulla. Fernando Pessoa e la parola amplificata in un sentire che è pensare emotivo, voler appartenere a tutto e restare straniero a tutto, viaggiatore solitario nella propria terra, nel proprio io. Un giorno mi domandarono quale libro sarei stata se avessi potuto esser libro: senza dubbio, "Il libro dell'inquietudine" di Pessoa, incompiuto, anelante, metafisico soliloquio, di una stanchezza che viene da un eccesso di semplice, interrogante complessità.
Nel video sopra, HELENE GRIMAUD SUONA L' ADAGIO DAL MOZART PIANO CONCERT N. 23, Deutschegrammophone 2011
Musica, natura e poi poesia e lupi. Hélène Grimaud. Trovarsi, correre "altrove" per sedare un senso di inadeguatezza, per riabitare il luogo che appartiene all'io prima di ogni prima, la chiamata a se stessi quando si è stranieri al proprio esistere. "Subire o scegliere di subire il destino" scrive, dire di sì al proprio daìmon oppure essere prigionieri per sempre. Lei ha scelto. Dolorosamente, con ostinazione ha scelto di abbracciare la sua natura di "donna che corre con i lupi". Musica e grandi spazi e per compagnia i lupi...Il pianoforte non bastava per dire "sono io". Nel libro che narra la sua storia ella spiega: “Ero alla ricerca del mio baricentro, di quel punto esatto che spetta a ognuno e ne definisce il posto, al di là del dolore e della frustrazione: il luogo del suo adempimento.” Correre lontano per raggiungersi, con quel silenzio nel cuore che è la Musica vera :“la musica si è impadronita di me perché è l’estensione del silenzio, di quel silenzio che sempre la precede e ancora vi echeggia. La musica è una via d’accesso a un altrove della parola, a quel che la parola non può dire e che il silenzio, tacendolo, dice. Una musica senza silenzio cos’altro è, se non rumore ?” Mi piace la sua prosa leggera, rispettosa dei complessi movimenti dell'anima e il ritmo di un racconto che narra in parallelo la sua storia e quella dei lupi. Due soggetti considerati pericolosi dai più.
polange
"...Ma un luogo in cui non provavo alcun senso di estraneità c'era. Era la Camargue, ed era magica. Un sogno proveniente dal mare. A poche ore d'auto soltanto, si precipitava in un altro universo, in cui trionfava con impeto qualcosa di selvatico, di indomito.
Se ovunque avevo l'impressione d'essere una nota stonata, là, invece, mi sentivo parte di una grande armonia.Negli stagni, negli specchi d'acqua sconfinati, si sentiva la forza del Rodano, s'intuiva che poteva diventare un toro, ondate come cornate. Lì non c'era più il sole delle api e delle mimose da giardino, ma l'implacabile bagliore del mezzogiorno ai quattro punti cardinali.
I fenicotteri rosa, i cavalli selvaggi, smuovevano il penetrante profumo del sale e della terra. La libertà con cui, d'improvviso, gli uni prendevano il volo e gli altri partivano al galoppo scuotendo la criniera, mi rinvigoriva.La Camargue era più di un paesaggio: la fugace avvisaglia, l'intuizione folgorante di un'armonia tra me e un avvenire. Là, per la prima volta, ebbi il presagio di grandi cose, il presagio di un destino.
...Sapevo che era un territorio di tutt'altra specie, uno di quegli spazi da cui ci si slancia, e andarci mi piaceva più di ogni altra cosa. Correvo piena di gioia, di esuberanza, per quella terra d'orizzonti dove ogni cosa esagera: sole troppo rovente, vento troppo forte, troppo imprevedibili le acque. Mi ripetevo le parole di Cézanne: Non mi avranno.
Me lo diceva anche la Camargue, e a tratti smettevo di far salti, corse e capriole nell'erba alta, e m'imponevo di camminare in punta di piedi, per non disturbare. Ero un'ospite, soltanto tollerata, come mi ricordavano le scottature del sole sulle spalle dalla pelle chiara e le punture delle zanzare; e al tempo stesso mi sentivo cavallo, vento, furiosa marea, dolce giacinto. Mi rotolavo nelle onde. Finalmente amica del mio corpo, nè femmina nè maschio. Soltanto viva: interamente, meravigliosamente viva. "
Hélène Grimaud, tratto da Le Variazioni selvagge, Bollati Boringhieri
...e ogni tanto ritornano i versi di Kavafis, imparati a memoria anni fa e mai dimenticati. Credo che un campanello d'allarme suoni ogni volta che ci allontaniamo da noi stessi, quasi un richiamo imperioso dell'essere autentici nei confronti di quell'impostore che è la vita "stucchevole estranea" forgiata sul tradimento di ciò che si è. La moltitudine talvolta dirotta la coscienza verso l'incoscienza. Soltanto il silenzio ci ritrova nella nostra integrità.
polange
E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano gioco balordo degli incontri e degli inviti,
“Too big to fail”. Troppo grande per fallire. Così gli economisti a proposito di Spagna e Italia, i due paesi nell’occhio del ciclone della speculazione finanziaria. Ma basta questa formuletta ripetuta come un mantra per sentirci al riparo? Dopo i giorni di passione delle borse italiane e la manovra finanziaria da carneficina sociale, diremmo di no. Non basta, evidentemente. Il mercato gioca a dardi con i debiti sovrani e alza il tiro, provando a scardinare la tenuta dell’eurozona. Nessun complotto, da qualche mese gli hedge funds hanno cominciato a scommettere contro il debito italiano in un calo di fiducia nel paese. Tuttavia, Italia come Grecia è un’equazione da non fare, mancano presupposti e profilo storico. L’Italia è vulnerabile per il suo colossale debito pubblico (circa il 120% del Pil), per le riforme strutturali prorogate sine die, e soprattutto per gli ininterrotti scandali politico-giudiziari che rinviano impudicamente a corruzione, olgettine, collusioni mafiose e poteri occulti che si appropriano degli spazi pubblici per farne uso privato e illecito e che tanto indietro lasciano un paese reale che affonda e boccheggia imprigionato nel pantano di disoccupazione, precariato, lavoro nero, caro petrolio, caro vita, senza ombra di crescita. Per questo, aumenta il disprezzo per “la casta” e i suoi privilegi, per i ricchi scordati dal fisco mentre l’unità nazionale la si chiede a chi si ingegna ogni dì per sbarcare il lunario. Gli indignati crescono, sul web e nelle piazze, e non sono più né di destra né di sinistra, hanno saltato la staccionata obsoleta dei partitismi e delle casacche, sono sicuri di non essere loro i destinatari del conto esoso della crisi. Giovani, donne, pensionati, immigrati, questo l’elenco del girone infernale, quello di chi è condannato a tirare una cinghia che già stringe poco e nulla. Una polveriera sociale che continua ad essere ignorata e che è il prodotto di una anti-democrazia fatta di pratiche incancrenite nel tessuto della società italiana in base alle quali la carriera non è il risultato del merito, del lavoro e del sudore, dell’impegno e del talento ma dell’essere bene introdotti negli ambienti del potere, dell’essere affiliati a qualcuno che conta, secondo un modello malavitoso lontano anni luce dall’American Dream.
L’Europa sembra aver minato le sue fondamenta, i suoi principi di uguaglianza, giustizia, solidarietà, finendo con l’apparire un manipolo di tecnocrati che in mezzo alla tempesta si aggrappa al patto di Stabilità finanziaria valido per tutti e in ogni caso. All’Italia le cure della Grecia… quelle che hanno quasi ammazzato la Grecia. Il risanamento dei conti pubblici attraverso lo smantellamento dello stato sociale con quel taglio lineare che colpisce i meno abbienti e lascia in pace i ceti più facoltosi. Il rischio Italia apre una fase nuova della crisi europea. Troppo grande per fallire, ma anche troppo grande per essere salvata. È in gioco il destino stesso dell’Unione che, continuiamo a ripeterlo, invece di restare abbarbicata al trattato di Maastricht potrebbe risolversi a sanare il suo “difetto di costruzione” costituito da una moneta unica senza Stato, la falla originaria che andrebbe cementata per restituire stabilità al progetto più grande e ambizioso del Novecento. L’Italia commissariata dalla Merkel è misura dell’odierna U.E: la Germania guida e portafoglio di Bruxelles, mentre le periferie economiche annaspano e ricevono diseguale trattamento dagli investitori. La stoccata della speculazione che ha colpito l’Italia e il suo debito sovrano, in esubero dal dopoguerra ma ampiamente assorbito a tassi contenuti dal sistema bancario e da risparmiatori solerti, è avvenuta con la complicità delle agenzie di rating, ora sotto inchiesta da parte di diverse procure italiane (Trani e Roma).
Alla crisi ha contribuito pure l’incertezza della task force dell’’Eurogruppo a Bruxelles nel trovare soluzioni efficaci al default della Grecia. Obiettivo oggi, per l’Italia, è evitare il circolo vizioso dell’aumento dei tassi sui titoli del debito pubblico. Sin dal primo attacco alla Grecia dai conti truffaldini si indovinava l’assalto all’Europa e si profilava una lotta feroce tra la finanza, orientata da tre agenzie di rating non sempre trasparenti, e la politica con le sue contraddizioni, le sue doppiezze, i suoi contorti avvitamenti per non smagliare le ragnatele del potere. Questa crisi è del sistema, è il fallimento del pensiero liberista, delle sregolatezze del mercato e delle trame opache della politica, del concetto finto-epicureo della “vita a credito” finito in bolle e spazzatura. Già durante il G8 di Genova nel 2001 tutto questo veniva denunciato da una marea di giovani in strada finiti al massacro secondo quella che Amnesty International ha definito “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. Il risanamento prima di essere economico dovrebbe essere etico-culturale. La politica dovrà decidersi a sganciarsi dalla malafinanza e dalle lobby bancarie inforcando gli occhiali grandi del futuro fatto sì di decrescita consapevole ma anche di alfabetizzazione civica e giustizia sociale; tassando le rendite finanziarie anziché spremere chi lavora, stanando i tesori depositati nei paradisi fiscali, dichiarando guerra all’evasione fiscale, promuovendo un’economia sostenibile, investendo in energie rinnovabili, scuola, ricerca, nuove tecnologie, sarebbe a dire, sviluppo, lavoro. È il momento di grandi protagonisti sulla scena politica e non di insignificanti parodianti che perpetuano modalità affaristiche e personali. Stiamo uscendo dalla fiction tartufesca e cialtrona girata in Italia, possiamo smontare il set riprovevole dell’ultimo ventennio. È il momento di sperare. Good morning, Italia.
Bel dono questi versi che aspettavano il loro momento per esser letti e rimessi in circolo. Sembrano toccare il segreto oscuro del "cadere che sale", dell'addio che resta, del chiudere che dischiude, del singolo destino raccolto lievemente dalle mani di un essere unico che tiene e sorregge "con dolcezza infinita" nel tempo della stanchezza. E' il gesto dell'abbandono che trova la sua sponda, la perfezione dell'attimo fermato dal "tenere" che è trattenere. E come non pensare all'ultima delle dieci elegie duinesi di Rilke: "E noi che pensiamo la felicità/ come un’ascesa, avremmo l’emozione/ che quasi ci smarrisce di quando cosa ch’è felice, cade.”
La memoria è il tesoro dell’anima dice un vecchio detto italiano. Vale ancora per noi che abitiamo un mondo “liquido” a forma di reticolato a maglie strette sul quale scorrono come su un rullo continuo informazioni, relazioni, connessioni, in una infinita marea di dati condensati in immagini, video, testi?
La memoria odierna si misura in megabytes e gigabytes ed è dotazione necessaria di iPod, iPad, hard disks, e-books, e tutte quelle meraviglie tecnologiche che fanno da corredo indispensabile alla nostra esistenza e ci aiutano a restare in contatto con tutto e con tutti in ogni luogo. Everybody, everytime, everywhere.
Ma è tutto così meraviglioso e noi siamo così felici in questa Rete virtuale che sconfina incessantemente nella nostra dimensione reale e ad essa si sovrappone? Non è che invece di acquistare discernimento ci siamo lanciati alla conquista del rimbambimento? O peggio della cancellazione della nostra memoria storica personale e collettiva in una continua “distrazione” a colpi di click e links? Le mie foto da bambina sono tutte in un cassetto da decenni; le mie foto di due anni fa sono andate perse con la rottura accidentale di un hard disk da 500 giga e con esse gran parte dei miei documenti degli ultimi tre anni.
La volatilità e la vulnerabilità dei nostri dati, dalle foto di famiglia ai segreti bancari fino ai top-secret di una nazione sono un problema reale e lo è ancora di più quello della conservazione del patrimonio culturale delle civiltà. Intere biblioteche oggi sono state sostituite da sistemi digitali.
Eppure il manoscritto più antico risale all’868 d.C. in Cina. I supporti digitali diventano presto obsoleti (chi usa ancora il floppy disk?) e nessuno sa con precisione stabilire quanto può durare un Cd o un Dvd, se anni, decenni, secoli o millenni. La presenza di Internet poi, ha mutato profondamente, radicalmente, la storia dell’umanità proprio come un tempo fecero l’introduzione dell’alfabeto, la scrittura, poi la stampa di Gutenberg e nel Novecento la televisione. Socrate tuonava contro la scrittura, il nuovo mezzo di comunicazione del suo tempo, poiché questa non permetteva domande ma solo discorsi a senso unico che avrebbero diminuito la capacità di pensiero critico e avrebbero oltretutto danneggiato la memoria intesa come sapere che ciascuno porta con sé. Eppure, tutto ciò che sappiamo del pensiero di Socrate è giunto fino a noi perché Platone lo ha scritto.
Ogni epoca ha il suo mezzo privilegiato di comunicazione lodato e odiato. Nessun passaggio è senza pericoli, nessuna trasformazione avviene senza perdite e senza guadagni. Ad ogni innovazione corrisponde inevitabilmente una riprogrammazione della struttura del nostro cervello anche a livello cellulare.
Qualche anno fa uno studioso della Harvard Business Review, Nicholas Carr, scrisse un articolo provocatorio: “Google ci sta rendendo stupidi?” Oltre a fare il giro del mondo lo scritto suscitò una serie di polemiche. Oggi, Carr torna con un altro saggio da poco tradotto in Italia: “Superficialità: quello che Internet sta facendo alla nostra mente”.
Alla mole incalcolabile di informazioni a disposizione non corrisponde una maggiore intelligenza diffusa, anzi, si contrappongono con evidenza: perdita di memoria individuale nel lungo periodo, difficoltà di concentrazione, superficialità nel “navigare” da un link all’altro senza soffermarsi sulla riflessione, sulla sedimentazione del sapere, senza dare il via all’elaborazione del pensiero. Inoltre, Google ci dà solo l’impressione di interrogare lì dove in realtà crea algoritmi che ci forniscono risultati collegati al mercato pubblicitario o alla frequenza delle richieste, ma non certo alla risposta “intelligente”. Google, Facebook e simili, offrono servizi apparentemente gratuiti per poi direzionare le nostre scelte in un modo predefinito lasciandoci l’illusione di avere opzioni di scelta e libertà di azione. Forse aveva ragione il filosofo francese Blaise Pascal quando nel XVII secolo scriveva che tutta l’infelicità dell’uomo derivava dal non sapersene stare da solo chiuso in una stanza.
Ci sono brani che sollevano, altri che tirano in basso e si compiacciono, brani che prendono e portano via chissà dove e altri che diventano specchio di ciò che è, ritmi taburellanti e strumenti alternati, incrociati, tra loro accordati; brani che passano e si dimenticano, brani che vanno e poi ritornano, ed è come se mai li avessimo lasciati indietro. Musica. Suono che attraversa e che dilata il senso. Andare altrove eppure restare, uscire dall'insensato del quotidiano ed essere introdotti condotti nel rigore senza lacci della croma e della semicroma, nella Gestalt stupefatta del linguaggio che parla all'universo e ricrea la perfezione sospesa, unica, totale dell'essere in movimento nel tempo come una danza eterna eterea dell'anima in volo che si trova senza cercarsi. Lux Aeterna è l'immagine di uno slancio per afferrare l'invisibile agli occhi...e lo sforzo ahimè infinitamente vano, di trattenerlo... polange
We send the Wave to find the Wave -
An Errand so divine,
The Messenger enamored too,
Forgetting to return,
We make the wise distinction still,
Soever made in vain,
The sagest time to dam the sea
is when the sea is gone -
Mandiamo l'Onda a trovare l'Onda -
Un Compito così divino,
Che anche il Messaggero s'innamorò,
Scordando di tornare,
Di nuovo concepiamo la saggia distinzione,
Sempre concepita invano,
Che il momento migliore per arginare il mare
sia quando il mare se n'è andato -