Mettere a tema un giorno sì e uno
no la propria integrità, lavorare su di sé, darsi compiti e fini. Scongiurare l’atarassia.
Eludere la noncuranza e l’indifferenza. Gli spettri dell’anima. Le atonie del
cuore.
Oscillare tra i due partiti presi
della resistenza senza compimento: l’accidia, cioè il rifiuto di spendersi e l’omissione
in luogo dell’azione e, dall’altro verso, l’ “inquietudo corporis”, il muoversi
a vuoto, senza mai trovare un “ubi consistam”, un luogo in cui davvero dimorare
restando se stessi.
Forse necessitiamo di più
filosofia e meno psicologia, bisognerebbe ripartire dai Greci, ricominciare da
una prospettiva antica e moderna al tempo stesso. In ogni istante mettersi in
pace con se stessi, il vero punto di resistenza all’accadere e all’essere è in
fondo, tentare un equilibrio mai rassegnazione di qualcosa. Ripartire dall’idea
che dobbiamo riconoscere che sì, siamo una potenza finita, un destino limite devoluti
all’infinito del desiderio. Non ci è
concesso di essere più di quel che siamo e di quel che possiamo. Sia l’accidia che la “instabilitas” sono
rinunce e in ogni caso manchiamo, manchiamo sempre all’appello di noi
stessi. Soltanto nel movimento vi è
progresso, nello scarto felice dell’inaspettato, nel frammento scagliato in
alto, più in alto possibile, ma secondo l’etica del pensiero greco è necessario
“farsi misura di se stessi”, convertirsi a sé, trasformare l’atto in
significato. Restare attaccati alla terra così come Nietzsche raccomandava. Restare
presso di sé. In solitudine auscultare le proprie metamorfosi, rammendare le
lacerazioni e le mancanze, impunturare i vuoti. Non serve prendere la fuga, non
serve coltivare un io grandioso, non serve gettare la spugna, l’etica del
possibile è la sola immaginabile, è fatta dal nostro nome e porta il nostro
viso e dice “io sono”. Essere lì dove si è. Abitare la nostra finitezza ci salva dalla
felicità degli stupidi, fatta di rimozione della sofferenza e senza sofferenza non vi è mai vero
godimento. Permanere è il nostro compito, quando tutto intorno a noi si muove e
nulla resta mai lo stesso, e tutto è terribilmente complicato, permanere,
pesarsi, erigere la nostra tenda lì dove si è. Chi gira a vuoto non sa dove si
trova, chi resta nel rifiuto e nell’accidia non incrocia mai sé stesso. Come si fa? Ecco la risposta di un filosofo
della contemporaneità:
“Da soli. Ci deve essere un
punto e un momento da cui cominciare. E da dove se non da noi? Bisogna disfarsi degli alibi, bisogna
afferrare il proprio limite e mantenersi entro questo confine. Per fare questo
è opportuno agire un po’ di meno e pensare di più. Stare presso di sé. Non se
ne ha la pazienza. Si crede di stare meglio se si sfugge ai problemi: al
contrario, l’uomo trarrebbe maggior vantaggio se divenisse capace di ciò che
Seneca chiamava la “conversio ad se”, se si raccogliesse per computare la
propria potenza, acquisire competenza del suo desiderio e padroneggiarsi.
Quanto valgo, cosa posso presumere per me senza cadere nella presunzione: cosa
posso davvero. E su questa base agire o ritirarsi. Così Seneca scriveva a
Lucilio: “Disce gaudere, impara a godere…desidero che non ti manchi mai la
gioia, anzi, che ti nasca in casa; e nascerà purchè essa sia entro te stesso…essa
non ti verrà mai meno, una volta che ne avrai trovato la sorgente…Mira al vero
bene e gioisci di ciò che ti appartiene”. (S. Natoli)
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.