AD OCCHI APERTI di ANGELA POLI
"Sai qual è il bello dei cuori infranti?" domandò la bibliotecaria.
Scossi la testa.
"Che possono rompersi davvero soltanto una volta. Il resto sono graffi."
Carlo Ruiz Zafòn da Il gioco dell'angelo, 2008 atto secondo - Lux Aeterna -
Alle Hawai, l'arcobaleno in un albero. Le cortecce multicolori dell'Eucalyptus Deglupta, nella foresta pluviale di Maui subito dopo un acquazzone tropicale. Foto di Barbara Dall'Angelo per il National Geographic.
PRIMA DELL'INIZIO
Succede talvolta quanto sto per scrivere:
divento triste
pensando alle foche uccise dai bracconieri,
e divento triste
vedendo un uomo mangiare da solo
con lo sguardo in basso,
e divento triste
quando immagino che un giorno la foresta Amazzonica
sarà solo un deserto di ricordi,
e divento triste quando perdo tempo,
e divento triste
quando mi ricordo che l'infanzia è un negativo
che non si può sviluppare,
e divento triste guardando il mare in tempesta,
e divento triste
sapendo che in ogni uomo c'è tanto così per cambiare le cose
... some of them would sound like Shakespeare. Others would speak like the Financial Times, yet others would praise God, or Allah. Some would just whisper, some would loudly sing their own praises, while others would modestly mumble a few words and really have nothing to say. Some are plain dead and don’t speak anymore...
Buildings are like people, in fact. Old and young, male and female, ugly and beautiful, fat and skinny, ambitious and lazy, rich and poor, clinging to the past or reaching out to the future.
Don’t get me wrong: this is not a metaphor. Buildings DO speak to us! They have messages. Of course. Some really WANT a constant dialogue with us. Some rather listen carefully first. And you have probably noticed: Some of them like us a lot, some less and some not at all.
Buildings, like people, are subject to time and exist in a three-dimensional world. That’s why our film is in 3D. It’s an invitation to wander around, to experience and to listen, for once.
The building you will encounter is a particularly gentle and friendly one, made for learning, reading and communicating. Its hills and valleys (yes, they exist in there) are eager to welcome you, to help, to be of service, and to be, in the best sense of the word, a meeting place.
(by Wim Wenders, July 2010)
Se gli edifici potessero parlare
...alcuni di loro ci sembrerebbero Shakespeare. Altri parlerebbero come il Financial Times, altri ancora glorificherebbero Dio o di Allah. Alcuni si limiterebbero a sospirare, alcuni canterebbero a voce alta le loro lodi, mentre altri mormorerebbero con pudore poche parole, non avendo nulla da dire. Alcuni sono morti del tutto e non parlano più...
Gli edifici sono esattamente come le persone. Vecchi e giovani, maschi e femmine,
orrendi e bellissimi, grassi e magri, ambiziosi e pigri, ricchi e poveri, aggrappati al passato o protesi verso il futuro
Non fraintendetemi: questa non è una metafora. Gli edifici ci parlano DAVVERO! Hanno dei messaggi per noi, ovviamente. Alcuni VOGLIONO realmente avere con noi un dialogo costante. Ci sono quelli che preferiscono prima ascoltare con attenzione. Probabilmente vi sarete accorti di una cosa: ad alcuni di essi piacciamo molto, ad altri meno ad altri ancora non piacciamo affatto.
Gli edifici, come le persone, sono soggetti all'azione del tempo ed esistono in un mondo tridimensionale. Ecco perché il nostro film è in 3D. E' un invito a girovagare, a sperimentare e ad ascoltare, per una volta.
L'edificio che incontrerete è particolarmente garbato e amichevole, un luogo nato per imparare, leggere e comunicare. Contiene colline e vallate (sì, anche lì esistono) che sono ansiose di accogliervi, di aiutarvi, di esservi d'aiuto e di essere, nel senso più alto della parola, un luogo di incontro
Si legge, ci si incrocia per riconoscersi e si lascia tracimare il senso:
Mettere a tema un giorno sì e uno
no la propria integrità, lavorare su di sé, darsi compiti e fini. Scongiurare l’atarassia.
Eludere la noncuranza e l’indifferenza. Gli spettri dell’anima. Le atonie del
cuore.
Oscillare tra i due partiti presi
della resistenza senza compimento: l’accidia, cioè il rifiuto di spendersi e l’omissione
in luogo dell’azione e, dall’altro verso, l’ “inquietudo corporis”, il muoversi
a vuoto, senza mai trovare un “ubi consistam”, un luogo in cui davvero dimorare
restando se stessi.
Forse necessitiamo di più
filosofia e meno psicologia, bisognerebbe ripartire dai Greci, ricominciare da
una prospettiva antica e moderna al tempo stesso. In ogni istante mettersi in
pace con se stessi, il vero punto di resistenza all’accadere e all’essere è in
fondo, tentare un equilibrio mai rassegnazione di qualcosa. Ripartire dall’idea
che dobbiamo riconoscere che sì, siamo una potenza finita, un destino limite devoluti
all’infinito del desiderio. Non ci è
concesso di essere più di quel che siamo e di quel che possiamo. Sia l’accidia che la “instabilitas” sono
rinunce e in ogni caso manchiamo, manchiamo sempre all’appello di noi
stessi. Soltanto nel movimento vi è
progresso, nello scarto felice dell’inaspettato, nel frammento scagliato in
alto, più in alto possibile, ma secondo l’etica del pensiero greco è necessario
“farsi misura di se stessi”, convertirsi a sé, trasformare l’atto in
significato. Restare attaccati alla terra così come Nietzsche raccomandava. Restare
presso di sé. In solitudine auscultare le proprie metamorfosi, rammendare le
lacerazioni e le mancanze, impunturare i vuoti. Non serve prendere la fuga, non
serve coltivare un io grandioso, non serve gettare la spugna, l’etica del
possibile è la sola immaginabile, è fatta dal nostro nome e porta il nostro
viso e dice “io sono”. Essere lì dove si è. Abitare la nostra finitezza ci salva dalla
felicità degli stupidi, fatta di rimozione della sofferenza e senza sofferenza non vi è mai vero
godimento. Permanere è il nostro compito, quando tutto intorno a noi si muove e
nulla resta mai lo stesso, e tutto è terribilmente complicato, permanere,
pesarsi, erigere la nostra tenda lì dove si è. Chi gira a vuoto non sa dove si
trova, chi resta nel rifiuto e nell’accidia non incrocia mai sé stesso. Come si fa? Ecco la risposta di un filosofo
della contemporaneità:
“Da soli. Ci deve essere un
punto e un momento da cui cominciare. E da dove se non da noi?Bisogna disfarsi degli alibi, bisogna
afferrare il proprio limite e mantenersi entro questo confine. Per fare questo
è opportuno agire un po’ di meno e pensare di più. Stare presso di sé. Non se
ne ha la pazienza. Si crede di stare meglio se si sfugge ai problemi: al
contrario, l’uomo trarrebbe maggior vantaggio se divenisse capace di ciò che
Seneca chiamava la “conversio ad se”, se si raccogliesse per computare la
propria potenza, acquisire competenza del suo desiderio e padroneggiarsi.
Quanto valgo, cosa posso presumere per me senza cadere nella presunzione: cosa
posso davvero. E su questa base agire o ritirarsi. Così Seneca scriveva a
Lucilio: “Disce gaudere, impara a godere…desidero che non ti manchi mai la
gioia, anzi, che ti nasca in casa; e nascerà purchè essa sia entro te stesso…essa
non ti verrà mai meno, una volta che ne avrai trovato la sorgente…Mira al vero
bene e gioisci di ciò che ti appartiene”. (S. Natoli)
... perché le trasparenze hanno più consistenza di tutto il visibile e perché i pensieri si congiungono da qualche parte, fermaposti cristallini di ciò che non cede...
Più trasparente
di quella goccia d’acqua
tra le dita del rampicante
il mio pensiero tende un ponte
da te stessa a te stessa.
Guardati
più reale del corpo che abiti
ferma in mezzo alla mia fronte
Sei nata per vivere in un’isola
OCTAVIO PAZ